Beetlejuice Beetlejuice e Nonostante. La chiave di una narrazione, Venezia 81
Il tema del primo giorno di una mostra somiglia alla nota che decide la chiave di una sonata. Il racconto della 81ma Biennale Cinema di Venezia, inizia con due film dedicati alla morte del padre.
Tim Burton, con Beetlejuice Beetlejuice suona una musica felice e scanzonata, nonostante i toni gotici, o forse grazie proprio alla sua confidenza con il post-punk che fa dell'horror una parodia, avvicinandosi come per coincidenza degli opposti alla descrizione manzoniana dell'orrore, della malattia e della morte. Non è proprio una coincidenza, perché Manzoni ha portato nella letteratura italiana per primo il tema gotico dell'orrore. E Tim Burton fa una dichiarazione d'amore anche alla lingua italiana, oltre che a Monica Bellucci, facendo recitare il suo fantasma preferito in italiano, per descrivere il momento della peste che lo ha reso tale. Lo spazio scenico di Tim Burton è uno spazio gotico e barocco, in cui c'è metacinema, sguardo in macchina, splatter, ironia e iperrealismo.
C’è molta autoironia e ironia nello sguardo di Burton, resa possibile da un atteggiamento distaccato nei confronti della morte, della miseria, dell’invecchiare, del feticismo dei corpi.
In qualche modo è come se tutto danzasse, resti in decomposizione compresi. Il suo inferno è un musical dove tutti ballano senza fine nella metropolitana di una New York dantesca che porta, come succede quando si va Coney Island, ovvero verso l’ignoto assoluto.
Tutti i temi cari a Burton, dal deforme, al mostro da cartone animato, alla mescolanza di disegno animato, scenografia e realtà virtuale appare al massimo splendore. Le citazioni di film muto, da Robert Wiene del Gabinetto del dottor Caligari, a Georges Méliès di Le Manoir du Diable, ci sono tutte, con tanto di scheletri danzanti anche per bambini.
Nell’aldilà non ci sono dei giudicanti anime, ma impiegati dell’immigrazione che a volte barano, in una stazione i cui corridoi e binari non fanno altro che continuare quelli di una infinita casa borghese, che non riesce a liberarsi di se stessa nemmeno in decomposizione. Nessuno è un angelo, tutti sono demoni, in una specie di neopaganesimo punk. Allo stesso modo, l’arte è rappresentata come un puro mercato, per non dire dell’insegnamento dell’arte, relegato a un modo di pubblicizzare l’opera di un artista collezionista che la maschera da beneficenza. Questo sguardo puramente amministrativo e statistico nei confronti della corruzione inesorabile del tempo e della morte, produce un certo grado di libertà verso entrambe. Addirittura permette che diventino arte.
I demoni peggiori diventano espressione di pura innocenza e vitalità in un contesto dove il desiderio è solo quello post-factum di un non vivente, che non fa altro che rinascere.
Allo stesso modo alla narrazione è consentito un gioco di specchi infinito, fra musical, show televisivo, gallerie d’arte, street art, ingoiando nel mondo amministrativo dei non vivi qualsiasi idea, corpo, persona. Eppure, il desiderio, in tutto questo non morire ancora, rimane un motore, forse l’unica potenza viva, per quanto non esattamente morale, anzi proprio grazie al fatto di non avere alcuna morale. Lo spazio narrante, definito dal tono fin dall’inizio, è quello della favola.
Valerio Mastrandrea, al contrario, con Nonostante, fa un largo uso di un dispositivo narrativo caro alla letteratura italiana e alla cinematografia del neorealismo, il discorso libero indiretto. Una camera che vaga seguendo l'attore, l'attore che si dissolve in uno sguardo capace di essere ovunque in ogni momento, errante ma non distratto. In questo gesto la presenza è quella di una voce senza corpo, e di un corpo che si è lasciato dietro la voce. I suoi personaggi sono infatti la coscienza dei personaggi che vaga nei corridoi di un ospedale romano, che porta le tracce di un cantiere eterno, in cui ci sono sempre fughe d'aria, finestre che non si chiudono, porte socchiuse, stanze affollate anche di non-vivi, se non di morenti. Al contrario di quello che accade per Burton, c’è una grandissima dicotomia fra questi corpi e la loro coscienza, sono completamente dicotomici e separati, con la seconda che prevale sulla prima, generando un dialogo amorevole di presenze fantasmatiche, nonostante i corpi inerti.
Mentre nel cinema di Pierpaolo Pasolini, cui la cinematografia di Mastrandrea allude senza citazioni dirette, il discorso libero indiretto è al servizio della rappresentazione della vitalità e della spontaneità delle cose-parole, per Valerio Mastrandrea il discorso libero indiretto è un modo per mostrare lo sguardo liminale, fra la vita e la morte. Con grande delicatezza racconta l'amore nonostante la fine, nonostante quel vento potente che è la biologia, contro cui è probabile vincere qualche puntata, ma non la partita. Il discorso libero indiretto diventa liberato grazie alla realtà virtuale e all'uso molto nascosto e non dichiarato degli effetti speciali, per cui diventa normale volare, sparire in una barca, cessare di esistere e stare in più dimensioni, come per primo era successo con Matrix, e prima ancora con Dragon Ball. Ma l'idea del regista è quella di non distaccare questi gesti estremi dal quotidiano, anzi di mostrare che il quotidiano ha sempre una dimensione se non soprannaturale, almeno di stati di coscienza al limite, senza i quali il mondo non si dà come percepito ed esistente. In definitiva è un lavoro sull'interiorità, sul quartiere dentro la città, sull'ospedale dentro il quartiere, sulla stanza dentro l'ospedale, sulla coscienza nel corpo, in un infinito rincorrersi di corridoi. Idealmente dunque, il film risponde alla necessità di rappresentare il mondo come se lo vedesse qualcuno che non ne ha parte, anche se da quel mondo dipende. Una necessità di armonia nonostante l'orrore della fine, della malattia e della morte. Le musiche sono quindi di accompagnamento, sottolineano, descrivono, non hanno una vita autonoma rispetto alle parole, ai dialoghi e ai personaggi. Come in una liturgia cattolica, risuona il pop già sentito, il familiare in un contesto straniante.
Una delle domande frequenti a proposito dell'orrore è perché nella lingua e nell'arte italiana non trovi spazio. La risposta migliore è negli studi recenti sulla pittura del rinascimento, secondo i quali in Italia c'è sempre stato il bisogno, per motivi anche di posizione e distribuzione del potere, di rappresentare in pubblico il mondo con figure di armonia. La presenza del principe del cattolicesimo come maggiore committente, ovvero del Papa in Italia, ha sempre voluto dire rappresentare il potere come esito della provvidenza divina. Nella musica, nei suoni, nell'architettura, nella pittura a partire dalla fine del duecento, il fondo dorato delle icone viene dissolto in un mondo che è rappresentazione di una teleologia che tende al bene, anche sotto le forme del conflitto e della distruzione, ogni distruzione essendo solo la fine provvisoria di una condizione perversa e da rinnovare. Agostino da Ippona, l’inventore della coscienza individuale moderna, descriveva la bellezza della battaglia feroce degli animali come una affermazione della bellezza divina, in cui tutto ha sempre un senso. Ma questa rappresentazione pubblica ha sempre coesistito con una rappresentazione privata, in cui il dolore, l’angoscia e in definitiva il mostrare la miseria della sofferenza senza redenzione, generano forme autonome, fantastiche, sganciate dalla descrizione del reale. Riducibili alla vita quotidiana solo con un salto capace di forte astrazione. Non è una questione di arte del nord o del sud Europa, ma di coesistenza di vizi privati e pubbliche virtù. Così nella collezione di Palazzo Grimani, a Venezia, potevano coesistere le opere di Bosch e i marmi trafugati dalle isole greche, in un palazzo la cui architettura è la riproposizione a Venezia delle forme del Rinascimento a Roma.
Non è un caso che un famosissimo sketch dei Monty Pyton, quello del contadino - morte, derivi proprio da un viaggio a Venezia e da una visita a Palazzo Grimani, che ospita un dipinto di Bosch sul cammino delle anime verso l’aldilà.
Allo stesso modo la musica italiana, derisa per questo da Mozart a proposito della figura di Clementi, ha sempre inteso l’armonia e l’accompagnamento come canto e melodia, senza tessiture dissonanti e plurivocità di voci, che in Italia erano però riservate alla musica popolare, ugualmente coltivata nelle corti in contesti di festa e di comicità, ma non certo per le commissioni gentilizie. In definitiva portandole nella musica colta, Mozart ha inventato la musica pop. Per questo in Italia, facciamo ancora tantissima fatica ad accettare sia l'horror, che il pop e i cantautori sono condannati a essere tristi oppure frivoli, giudicanti, oppure concilianti. Il salto non lo abbiamo ancora fatto, e il motivo è culturale e in definitiva di rapporto con il potere, ai tempi di Clementi e di Mozart, come in quelli di Tim Burton e di Valerio Mastrandrea.
Irene Guida