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Balthus a Basilea

categoria: Grandi Mostre
2 September 2018 – 1 January 2019

Balthus

Basilea, Switzerland
Fondazione Beyler

Era poco più che ventenne, il conte Balthus, quando dipinse La strada, quadro che raffigura una via parigina attraversata da personaggi ritratti con una gestualità teatrale, considerata una delle sue opere più indecifrabili, a detta di chi la vide nel primo atelier dell’artista polacco in rue de Furstemberg a Parigi. La strada (1933), oggi al MoMA - Museum of Modern Art di New York, identificabile con rue Bourbon-le-Chateau, nel cuore del vecchio quartiere parigino di Saint-Germain-des-Prés, riproduce una scena di gruppo che, se pur collocata in un luogo reale, presenta l’intensità di un sogno. A sinistra c’è una ragazzina, aggredita da un energumeno, dietro un cuoco e, in primo piano, una bambina; al centro un operaio che attraversa la strada; a destra un uomo che avanza con gli occhi sbarrati e una mano sul cuore; una mamma che porta in braccio il suo bambino, seguita da una misteriosa figura in nero. Secondo il pittore e incisore inglese Stanley William Hayter, che aveva collaborato con Balthus, l’iconografia prendeva ispirazione da Lewis Carroll, mentre Jean Clair ci vedeva l’impronta di Masaccio e dei maestri del Quattrocento italiano, e lo scrittore americano Guy Davenport coglieva richiami alla Primavera di Botticelli. I malpensanti ci videro, banalmente, il sogno indecente di un incorreggibile erotomane. Balthus, in una lettera del 1934 alla moglie, la bernese Antoinette de Watteville ribatteva: «Quando osserverai questo quadro, che nulla ha di comico, ma su cui aleggia un temibile mistero, non ti curare della critica […]. Il gruppo erotico sulla sinistra non ha nulla di osceno. Se vuoi, rappresenta l’esteriorizzazione di svariati sentimenti primitivi o primordiali. La maggior parte degli attori sulla scena sono bambini». Nato il 29 febbraio del 1908 a Parigi, Balthus era figlio d’arte: suo padre, il conte polacco-prussiano Erich Kłossowski de Rola, era pittore e storico dell’arte, la madre Baladine Kłossowska, nata Spiro, copiava le opere di Poussin conservate al Louvre. Balthus aveva una cultura cosmopolita, cinque lingue parlate con accento “blasé”, era idolatrato dai potenti del mondo. Ma i dati biografici non svelano il mistero. Ma chi era Balthus? Un bambino imbronciato che non voleva crescere? Un vecchio perso in sogni a occhi aperti e vagamente indecenti? Un teatrante, un dandy, un esteta? Al critico d’arte John Russell, che gli stava organizzando un’antologica alla Tate Gallery, e voleva un testo di presentazione, aveva scritto in un telegramma: «Il modo migliore di cominciare è dire: Balthus è un pittore del quale non si sa niente. E adesso guardiamoci i dipinti». Per poi ritrattare, imbarazzando l’uditorio: «I dipinti non descrivono né rivelano il pittore». Isolato, altero, arroccato su una vetta estrema, come un uccello d’alta quota, è stato l’ultimo mito della modernità, l’incarnazione assoluta di un’idea dell’arte esclusiva e riservata a pochi grandi solisti. Balthus, “nickname” di Balthasar Kłossowski de Rola, forse inventato da sua madre Baladine, è celebrato in una retrospettiva di capolavori alla Fondation Beyeler di Riehen/Basilea. Siamo in Svizzera tedesca, non troppo distante dal villaggio vallese di Rossinière, dominato dal Grand Chalet del Settecento in legno color nocciola, il “buen retiro” dove il pittore francese di origine polacca ha vissuto con la seconda moglie, la giapponese Setsuko e la figlia Harumi, dal 1997 alla morte, avvenuta nel 2001, a novantadue anni. Ma erano in pochi a saperlo: il vecchio conte de Rola, che con estrema civetteria si impomatava i capelli bianchi e si mostrava al pubblico con setosi kimono colorati, dichiarava sempre solo un quarto della sua età. Nessuno ribatteva. Per conoscere Balthus si deve entrare nel suo mistero, dunque. E quale migliore occasione che lasciarsi incantare dalla sua pittura conturbante, da quelle tele che dopo aver incrociato Rinascimento, pittura naïf e surrealismo si riconoscono nell’intimismo di Pierre Bonnard e nella leggerezza di Alberto Giacometti. L’artista svizzero era il migliore amico di Balthus; portamento altero il pittore, temperamento passionale lo scultore, i due si completavano a vicenda. Ironici sulla qualità della loro arte, si criticavano ferocemente, per poi riconoscersi in una sensibilità comune che li faceva sentire antichi e diversi, isole nella corrente, senza punti di riferimento nelle avanguardie surrealiste e cubiste del Novecento. Entrambi fumavano come ciminiere. Balthus aveva sempre una Dunhill appesa alle labbra, e per diminuire il contatto del fumo con gli occhi, ne socchiudeva uno e piegava il collo di lato, come un uccello di palude. Il conte si sentiva legato a Giacometti come a un fratello. Aveva appuntato nel suo atelier una sua foto quale nume tutelare: «Non so chi l’abbia scattata», diceva, «ma lavoro così, all’ombra di Alberto, sotto il suo sguardo benevolo, incoraggiante». I curatori Raphaël Bouvier e Michiko Kono hanno concentrato nella mostra svizzera quaranta opere cruciali di tutte le stagioni creative dell’artista, dagli anni Venti agli anni Novanta, fra dipinti, acquerelli e disegni, tra cui il capolavoro Passage du Commerce Saint-André, eseguito fra il 1952 e il 1954. Anche qui, personaggi enigmatici e una gestualità sospesa, che ritroviamo pure in I bambini Blanchard del 1937 e nei ritratti: La gonna bianca del 1937 è tra i più belli dedicati alla moglie Antoinette.  Il re dei gatti, del 1935, uno dei rari autoritratti, mostra l’artista come un elegante “dandy” con un gatto ai suoi piedi;  non mancano poi i ritratti delle tante favolose fanciulle delle quali il pittore si vantava di saper cogliere, oltre alla freschezza delle forme acerbe, il palpito innocente dell’anima. Thérèse, Georgette, Cathy, Alice, Frédérique: allo specchio, alla toilette, sul divano davanti al fuoco, a lezione di chitarra. Dipinti che hanno alimentato discussioni, riflessioni e interrogativi: fino a che punto può spingersi la libertà d’espressione? 

Melisa Garzonio