Art e Dossier

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Düsseldorf: infinite sfumature di grigio

categoria: Grandi Mostre
22 March – 15 July 2018

Decidere di usare solo il bianco e nero – e relative sfumature intermedie – è una scelta espressiva radicale. Porta a concentrarsi sugli aspetti essenziali della realtà visibile: il corpo e la sua forma, la porzione di spazio che occupa, la sua reazione a una fonte luminosa, l’ombra che proietta.

La mostra Black&White. Von Dürer bis Eliasson al Museum Kunstpalast di Düsseldorf fino al 15 luglio (dopo la prima tappa, con il titolo Monochrome: Painting in Black and White, alla National Gallery di Londra) ripercorre con oltre cento opere suddivise in nove sezioni tematiche la storia e le declinazioni di questa particolare espressione artistica, dai primi esempi medievali fino all’arte contemporanea, e indaga le ragioni religiose, filosofiche, culturali o tecniche che hanno spinto gli artisti, attraverso sette secoli, a cimentarsi con la “grisaille”.

La riduzione e la concentrazione della gamma cromatica al bianco e al nero, il lavoro per sottrazione, portano a esiti creativi sorprendenti. Un approccio che nel tempo è stato spesso accompagnato da una riflessione sulla natura della realtà visibile e il suo possibile superamento, quasi una liberazione, intellettuale e spirituale, dai vincoli dell’apparenza alla quale appartiene anche il colore.

La mostra nasce da un progetto del 2015 delle curatrici inglesi Lelia Packer e Jennifer Sliwka, ampliato, nella versione di Düsseldorf, con la cocuratela di Steffen Krautzig e Sandra Badelt, perché pensato su uno spazio di oltre 1700 metri quadrati, con l’aggiunta di molti esempi moderni e contemporanei, in particolare di una sezione dedicata alla fotografia, arte che nasce in bianco e nero, di cui Düsseldorf è una delle capitali mondiali. 

La pittura in sfumature di bianco e nero esisteva già nell’antichità: ne parla Plinio (Naturalis Historia 35.5) e Plutarco (Moralia 346) afferma che il pittore ateniense Apollodoro nel V secolo a.C. aveva sviluppato una tecnica nota come “skiagraphia” (pittura di ombra) utilizzata per la resa volumetrica dei corpi. Le prime testimonianze che ci sono pervenute risalgono al Medioevo e sono su vetrate realizzate per i monasteri cistercensi nella Francia del XII secolo, che vietavano l’uso del colore nelle immagini perché la mente non ne fosse distratta. L’uso di vetrate con decorazioni a “grisaille” si diffuse poi anche presso altri ordini religiosi. Alcuni frammenti proposti in mostra sono ascrivibili alle vetrate della cappella della basilica di Saint-Denis a Parigi dedicata a Luigi IX di Francia, del 1320-1324, distrutte durante la Rivoluzione francese. Decorazioni a monocromo bianco e nero si ritrovano, nella Francia del Trecento, anche su avori, smalti e miniature a soggetto religioso; erano in uso, inoltre, anche in altre parti d’Europa e nei secoli successivi, sui paramenti liturgici, per il sacerdote e per l’altare, destinati alle celebrazioni quaresimali. Tra i pezzi forti della mostra, un’imponente Agonia nell’orto, uno dei quattordici parati dipinti in bianco su tela blu (tela di jeans!) commissionati da Andrea Doria per il presbiterio o la sacrestia dell’abbazia benedettina di San Nicolò del Boschetto a Genova, per rivestirne l’altare e le pareti. Il “digiuno” cromatico quaresimale imposto al fedele preludeva alla letizia pasquale in cui il colore delle immagini sacre avrebbe avuto la forza di una rivelazione.

Come ricorda Salvatore Settis nella recensione della tappa londinese(*), secondo Aby Warburg l’uso del bianco e nero e di tutte le sfumature del grigio voleva indicare una “distanza” rispetto alla realtà, un allontanamento fisico ma anche temporale. Così la Natività di Petrus Christus (1450 circa, Washington, National Gallery of Art) è incorniciata da un fregio a monocromo, che simula la scultura, con le effigi dei personaggi dell’Antico testamento: la storia antica racchiude quella più attuale, la preannuncia e nello stesso tempo la completa, aiuta lo spettatore a comprenderne la portata e la profondità e divide, come una soglia, lo spazio del fedele da quello della scena sacra, così come l’Annunciazione monocromatica dipinta sulle ante esterne di un altarolo di Marten De Vos (dopo il 1569, Düsseldorf, Museum Kunstpalast) racchiude il colore della scena della Crocifissione, e colloca in due diversi momenti della storia l’annuncio dell’incarnazione di Cristo e la terribile attualità della sua sofferenza.

Nei secoli appena successivi, la pittura in bianco e nero si affranca gradualmente dalla connotazione religiosa ed è utilizzata dai pittori negli studi preparatori ai dipinti, per mettere a punto gli effetti di chiaroscuro nella resa materica dei panneggi e dei corpi nello spazio. In mostra, tra i vari studi e bozzetti per dipinti o per affreschi, un sublime Compianto sul Cristo morto di Rembrandt, preliminare a un’opera non nota o mai realizzata, in cui gli effetti esasperati di luce e ombra del monocromo contribuiscono a enfatizzare la drammaticità della scena.

Una sezione autonoma della mostra indaga il rapporto di competizione, emulazione e supporto reciproco tra pittura a monocromo e scultura, da Andrea Mantegna, che dipinge il fregio con l’Introduzione del culto di Cibele a Roma a imitazione di un bassorilievo antico, a Canova, il cui bassorilievo con la Deposizione dal drammatico chiaroscuro, modellato in gesso dallo scultore (1800, Possagno, Gipsoteca) e poi tradotto in marmo da un allievo, è accompagnato da uno studio a “grisaille” delle luci e delle ombre a opera di Bernardino Nocchi.

Oltre alle finalità di studio, fin dal Cinquecento, anche se la critica individua alcuni possibili esempi precedenti (come la Santa Barbara di Van Eyck, 1437, Londra, National Gallery o il Cristo morto di Giovanni Bellini, 1490, Gallerie degli Uffizi), la rappresentazione a monocromo diventa un genere autonomo, ricercato dai collezionisti per la raffinatezza tecnica ed estetica, spesso in stretto rapporto con l’arte dell’incisione. Dalle misure imponenti (2,19 x 1,63 m), con le quali l’incisione non poteva competere, un monocromo a penna di Hendrick Goltzius, che rappresenta con una composizione allegorica il detto Senza Bacco e Cerere Venere ha freddo, è un vero e proprio sfoggio di abilità tecnica.

Le sezioni successive dimostrano come dai primi esempi di rappresentazione a monocromo autonoma si arrivi, nel tempo, all’Odalisca a grisalle (1824-1834 circa) di Ingres – l’immagine della mostra – che il pittore ha voluto spogliata dei suoi attributi esotici, e alle ballerine in sfumature di grigio di Degas (1874), esposte nella prima mostra impressionista. Il passaggio ai ritratti di Giacometti dalle cromie ridotte e a uno studio di Picasso delle Meninas di Velázquez, dove le sfumature di grigio servono a evidenziare l’attenzione alla struttura compositiva e all’uso della luce, viene di seguito e apre alle riflessioni più contemporanee.

La sezione dedicata alla fotografia, che attinge alle collezioni del museo, prelude alle sale successive in cui si trovano esempi della confluenza e contaminazione reciproca tra pittura, scultura, cinema, fotografia, tipica del Novecento: alcune opere di Gerhard Richter si affiancano a lavori di Marlene Dumas, all’astrattismo di Pollock, Cy Twombly, Frank Stella, Josef Albers, Jasper Johns; a esempi di Op Art e al monumentale Joel (1993) di Chuck Close.

Chiudono il percorso espositivo due sorprendenti installazioni che pongono la percezione del visitatore al centro della ricerca concettuale ed estetica.

Nella Collector’s House di Hans Op de Beeck (2016), una grande stanza con una fontana con ninfee al centro, dove “abitano” alcuni personaggi a grandezza naturale, il grigio è l’unico colore che riveste tutto: le figure umane, gli arredi, gli oggetti sparsi ovunque, la grande biblioteca alle pareti. Si intuiscono i resti di una festa, i portaceneri sporchi, le lattine abbandonate nel laghetto. Il visitatore che attraversa la stanza chiusa, e può sostare su alcuni divanetti, è l’unico elemento colorato. L’ultima installazione, Room for one colour (1997) di Olafur Eliasson, è una stanza dove la luce gialla a monofrequenza annulla completamente i colori visibili, riportando tutto – compreso chi la attraversa – al bianco e nero, rendendo la percezione dei dettagli delle ombre più precisa e aprendo nuove riflessioni sull’apparenza e sulla parzialità (la vanità?) del punto di vista umano. Che cosa vedo davvero? Che cosa non vedo? Che cosa c’è al di là del visibile? Il ritorno nel mondo a colori, alla fine della visita, non elimina questi interrogativi. 

Ilaria Ferraris