Art e Dossier

940x240.png
940x240.png

Düsseldorf: infinite sfumature di grigio

categoria: Mostre
22 marzo – 15 luglio 2018

Black&White. Von Dürer bis Eliasson

Decidere di usare solo il bianco e nero – e relative sfumature intermedie – è una scelta espressiva radicale. Porta a concentrarsi sugli aspetti essenziali della realtà visibile: il corpo e la sua forma, la porzione di spazio che occupa, la sua reazione a una fonte luminosa, l’ombra che proietta. La mostra Black&White. Von Dürer bis Eliasson al Museum Kunstpalast di Düsseldorf fino al 15 luglio ripercorre con oltre cento opere suddivise in nove sezioni tematiche la storia e le declinazioni di questa particolare espressione artistica, dai primi esempi medievali fino all’arte contemporanea, e indaga le ragioni religiose, filosofiche, culturali o tecniche che hanno spinto gli artisti, attraverso sette secoli, a cimentarsi con la “grisaille”. La mostra nasce da un progetto del 2015 delle curatrici Lelia Packer e Jennifer Sliwka, ampliato, nella versione di Düsseldorf, con la cocuratela di Steffen Krautzig e Sandra Badelt, perché pensato su uno spazio di oltre 1700 metri quadrati, con l’aggiunta di molti esempi moderni e contemporanei e di una sezione dedicata alla fotografia. La pittura in sfumature di bianco e nero esisteva già nell’antichità: Plutarco (Moralia 346) afferma che il pittore ateniense Apollodoro nel V secolo a.C. aveva sviluppato una tecnica nota come “skiagraphia” (pittura di ombra) utilizzata per la resa volumetrica dei corpi. Le prime testimonianze che ci sono pervenute risalgono al Medioevo e sono su vetrate realizzate per i monasteri cistercensi nella Francia del XII secolo, che vietavano l’uso del colore nelle immagini perché la mente non ne fosse distratta. L’uso di vetrate con decorazioni a “grisaille” si diffuse poi anche presso altri ordini religiosi. Alcuni frammenti proposti in mostra sono ascrivibili alle vetrate della cappella della basilica di Saint-Denis a Parigi dedicata a Luigi IX di Francia, del 1320-1324, distrutte durante la Rivoluzione francese. Tra i pezzi forti della mostra, un’imponente Agonia nell’orto, uno dei quattordici parati dipinti in bianco su tela blu (tela di jeans!) commissionati da Andrea Doria per il presbiterio o la sacrestia dell’abbazia benedettina di San Nicolò del Boschetto a Genova, per rivestirne l’altare e le pareti. Il “digiuno” cromatico quaresimale imposto al fedele preludeva alla letizia pasquale in cui il colore delle immagini sacre avrebbe avuto la forza di una rivelazione. Come ricorda Salvatore Settis nella recensione della tappa londinese, secondo Aby Warburg l’uso del bianco e nero e di tutte le sfumature del grigio voleva indicare una “distanza” rispetto alla realtà, un allontanamento fisico ma anche temporale. Così la Natività di Petrus Christus  è incorniciata da un fregio a monocromo, che simula la scultura, con le effigi dei personaggi dell’Antico testamento: la storia antica racchiude quella più attuale, la preannuncia e nello stesso tempo la completa, aiuta lo spettatore a comprenderne la portata e la profondità e divide, come una soglia, lo spazio del fedele da quello della scena sacra. Nei secoli appena successivi, la pittura in bianco e nero si affranca dalla connotazione religiosa ed è utilizzata dai pittori negli studi preparatori ai dipinti, per mettere a punto gli effetti di chiaroscuro nella resa materica dei panneggi e dei corpi nello spazio. In mostra, tra i vari studi e bozzetti per dipinti o per affreschi, un sublime Compianto sul Cristo morto di Rembrandt, preliminare a un’opera non nota o mai realizzata, in cui gli effetti esasperati di luce e ombra del monocromo contribuiscono a enfatizzare la drammaticità della scena. Una sezione autonoma della mostra indaga il rapporto di competizione, emulazione e supporto reciproco tra pittura a monocromo e scultura, da Andrea Mantegna a Canova. Oltre alle finalità di studio, fin dal Cinquecento la rappresentazione a monocromo diventa un genere autonomo, ricercato dai collezionisti per la raffinatezza tecnica ed estetica, spesso in stretto rapporto con l’arte dell’incisione.  Le sezioni successive dimostrano come dai primi esempi di rappresentazione a monocromo autonoma si arrivi, nel tempo, all’Odalisca a grisalle (1824-1834 circa) di Ingres che il pittore ha voluto spogliata dei suoi attributi esotici, e alle ballerine in sfumature di grigio di Degas (1874), esposte nella prima mostra impressionista. Il passaggio ai ritratti di Giacometti dalle cromie ridotte e a uno studio di Picasso delle Meninas di Velázquez, dove le sfumature di grigio servono a evidenziare l’attenzione alla struttura compositiva e all’uso della luce, viene di seguito e apre alle riflessioni più contemporanee. La sezione dedicata alla fotografia, che attinge alle collezioni del museo, prelude alle sale successive in cui si trovano esempi della confluenza e contaminazione reciproca tra pittura, scultura, cinema, fotografia, tipica del Novecento: alcune opere di Gerhard Richter si affiancano a lavori di Marlene Dumas, all’astrattismo di Pollock, Cy Twombly, Frank Stella, Josef Albers, Jasper Johns; a esempi di Op Art e al monumentale Joel (1993) di Chuck Close.

Ilaria Ferraris