Art e Dossier

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Keith Haring a Liverpool

categoria: Mostre
14 giugno – 10 novembre 2019

Keith Haring

Liverpool, Gran Bretagna
Tate

«L’arte dovrebbe essere qualcosa che libera la tua anima, provoca l’immaginazione e incoraggia le persone ad andare oltre», è un pensiero semplice quanto potente quello di Keith Haring (1958-1990), artista e attivista americano che fece parte della leggendaria scena artistica di New York negli anni Ottanta, dominata da Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat, quella dello Studio 54 e del Club 57. Noto al grande pubblico per le sue opere colorate e per il suo repertorio visivo diventato iconico, gran parte del suo lavoro ha risposto agli eventi sociali e politici a lui contemporanei, dalla battaglia per il disarmo nucleare a quella contro l’apartheid in Sud Africa e contro l’Aids, malattia che gli fu diagnosticata nel 1988 e che colpì un gran numero di suoi amici. Ritenuto uno dei nomi più significativi dell’arte contemporanea, da metà giugno e fino al 10 novembre Haring è protagonista alla Tate Liverpool della prima grande mostra personale a lui dedicata nel Regno Unito con più di ottantacinque opere, molte delle quali qui mai esposte, tra cui disegni e dipinti di imponenti dimensioni, volantini e poster, oltre a numerosi video. «Abbiamo voluto davvero far rinascere l’energia culturale e l’eleganza della New York City degli anni Ottanta», ha affermato Darren Pih, curatore, insieme a Tamar Hemmes, della mostra che in autunno si sposterà al BOZAR - Palais des Beaux Arts di Bruxelles e in seguito al Museum Folkwang di Essen. Haring, la cui ambizione giovanile era lavorare per Walt Disney, si trasferì a New York da Pittsburgh, dove si era iscritto per un anno alla Ivy School of Professional Art, già consapevole della sua propensione artistica, e fu proprio grazie alla vibrante temperie della Grande Mela che la sua forma espressiva, da commerciale e pubblicitaria, esplose in tutta la sua potenza creativa. Gli impulsi ricevuti dall’espressionismo astratto, dalla Pop Art, ma anche dalla calligrafia cinese lo spinsero a creare un suo linguaggio visivo unico e riconoscibile, apparentemente spontaneo, ma fortemente animato dagli stimoli dell’epoca che stava vivendo, legati, per esempio, ai viaggi spaziali, ai videogiochi, alla robotica. La mostra nelle sale della Tate Liverpool, oltre a presentare una cospicua parte della produzione di Haring, riesce a ricreare lo spirito del tempo grazie a materiale d’archivio, raramente esposto, che documenta anche le collaborazioni dell’artista americano con Madonna, Grace Jones, Vivienne Westwood e Malcolm McLaren, i bozzetti delle scenografie per video e performance, così come per gli spettacoli e le mostre che organizzò al Club 57, di cui era membro molto attivo. L’esposizione, inoltre, mette in luce la natura performativa del lavoro di Haring – a partire dai suoi disegni di gesso realizzati sui cartelloni neri della metropolitana di New York –, pratica documentata dall’artista e fotografo Tseng Kwong Chi. Vivendo e lavorando nell’East Village di New York, Keith Haring riuscì a costruirsi una grande cerchia sociale, che comprendeva molti artisti che facevano parte della sua stessa cultura underground. Tra questi ricordiamo Madonna e gli stessi Jean-Michel Basquiat e Andy Warhol, con i quali spesso condivise lavoro e momenti di svago (andò al matrimonio della cantante con Sean Penn insieme al re della Pop Art). Essendo però una figura fuori dagli schemi e lontana dallo stereotipo dell’artista da galleria o da museo, non attirò certo le comunità di curatori, collezionisti o critici, ma piuttosto l’attenzione delle forze dell’ordine. Fu chiaro quasi da subito per lui che i suoi disegni e i suoi graffiti sarebbero dovuti essere una forma di arte pubblica, creata quindi in strada e per la strada, atta a raggiungere il più vasto numero di persone. «Ricordo benissimo un pomeriggio mentre disegnavo in metropolitana», scrive lo stesso Haring in uno dei suoi taccuini, «si fermava qualunque tipologia di persona. Era la prima volta che mi rendevo conto di quante persone avrebbero potuto apprezzare l’arte se solo ne avessero avuto la possibilità. Non erano le persone che vedevo nei musei o nelle gallerie, ma una fetta trasversale dell’umanità che attraversava tutti i confini». Senza abbandonare colori e animazioni, cominciò ad affrontare alcuni dei temi più controversi e coinvolgenti riguardanti le persone, non solo in America ma in tutto il mondo, inventando slogan accattivanti per esprimere rapidamente ed efficacemente il suo messaggio. Uno degli esempi più famosi è il grande murale realizzato nel ghetto di Harlem con la scritta «Crack is Wack» (Il crack è una porcheria) per stimolare la gente a non fare uso della devastante sostanza ricavata dalla cocaina. Usò la sua arte anche per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del virus dell’Hiv. Il suo manifesto Ignorance = Fear faceva riferimento proprio alle sfide affrontate dalle persone che vivevano con l’Aids e all’importanza dell’educazione al riguardo. Come artista apertamente gay, Haring scelse di rappresentare nel suo lavoro anche le difficoltà affrontate dalla comunità LGBTQ. Forse una delle azioni artistiche più importanti della sua vita e carriera avvenne nel 1986, quando fu invitato a dipingere una sezione del Muro di Berlino, nel tentativo di «distruggere il muro attraverso la pittura». Dipinse un murale figurativo usando i colori della bandiera tedesca, a simboleggiare la speranza di unità tra la Germania Est e Germania Ovest. L’opera fu distrutta nel 1989 quando il muro fu demolito. Subito dopo la sua realizzazione, però, Haring scrisse nel suo diario: «Se non è considerato “sacro” e “prezioso”, allora posso dipingere senza inibizioni e sperimentare l’interazione di linee e forme. Posso dipingere spontaneamente senza preoccuparmi se sembra bello […]. È temporaneo e la sua permanenza non è importante. La sua esistenza è già stabilita. Può essere reso permanente dalla fotocamera». Helen Legg, direttrice della Tate Liverpool, ha affermato che la città di Liverpool e Keith Haring hanno molto in comune: «Entrambi sono politicamente impegnati con una storia di attivismo, un forte senso di giustizia sociale e un amore per la musica e la moda». Quale città migliore dunque per raccontare la vita e l’opera di un artista straordinario il cui lavoro sarà per sempre considerato come un ponte tra l’arte da galleria e museo e quella di strada, per la gente comune. 

Costanza Rinaldi