Art e Dossier

940x240.png
940x240.png

Mario Sironi. Il volto austero della pittura

categoria: Mostre
3 – 31 maggio 2019
Bergamo
Palazzo storico Credito Bergamasco

Un pittore austero: è questa la definizione scelta dai curatori Angelo Piazzoli e Paola Silvia Ubiali per Mario Sironi, a cui è ora dedicata una mostra nel Palazzo storico Credito Bergamasco. Tutto cominciò negli primi anni Sessanta, quando l’allora Banca Popolare di Milano acquisì, per volere del suo presidente Domenico Barbero, dodici lavori dell’artista, a cui nel 2008 si aggiunsero altre tre opere “monumentali” degli anni Trenta. Tra la prima e la seconda acquisizione era finalmente avvenuta la “riscoperta” e rivalutazione di Sironi, artista che non rinnegò mai la sua adesione e la sua fedeltà al fascismo, tanto da essere condannato a morte dal CNL (scampò fortunosamente all’esecuzione), e per questo venne relegato ai margini della vita culturale italiana del Dopoguerra. Fu solo nel 1985, a più di vent’anni dalla sua scomparsa, che Milano gli dedicò una grande retrospettiva, a cui fece seguito un’altra importante esposizione allestita presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo (2004). Con la città orobica l’artista, nato a Sassari, ebbe importanti rapporti e legami: nel 1934 portò a termine nel Palazzo delle Poste le due grandi tele Il Lavoro nei campi o L'Agricoltura e Il Lavoro in città o L'Architettura e scelse poi significativamente di farsi seppellire nel cimitero monumentale di Bergamo, insieme alla madre, alla moglie e alle figlie. L’allestimento nel salone e nel loggiato del Palazzo storico Credito Bergamasco (dopo la fusione, fa parte del gruppo Banco BPM) prende il via dalle quindici opere di proprietà, a cui si aggiungono una quarantina di prestiti da collezioni private, alcuni mai esposti al pubblico e che documentano non solo la pratica pittorica sironiana, ma anche l’attività di illustratore per testate quali “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” (già dal fronte, durante la Prima guerra mondiale a cui l’artista aveva partecipato con slancio da interventista, si era dedicato alla satira politica per i periodici dell’epoca). Particolarmente interessante è l’esposizione del primo progetto per l’affresco L’Italia tra le Arti e le Scienze destinato all’Aula Magna del Rettorato dell’Università “Sapienza” di Roma e databile al 1934-35: documenta infatti sia i ripensamenti di Sironi rispetto alla resa finale dell’opera sia, soprattutto, la distanza con i rifacimenti eseguiti da Carlo Siviero nel 1950 il quale, con l’intento di celare i simboli del regime, “finì per snaturare tutto il pathos sironiano, velando le figure di una leziosità completamente estranea all’autore”, come afferma Paola Silvia Ubiali. Non mancano le testimonianze delle prime fasi dell’arte di Sironi: dagli esperimenti ancora un poco scolastici alla tardiva adesione al Futurismo, dai primi paesaggi urbani del 1919 che contengono già i presupposti dei dipinti più noti del decennio successivo, fino alle opere degli anni Cinquanta, periodo di grande turbamento dovuto anche al suicidio della figlia Rossana. “Per un artista che aveva speso gran parte delle sue energie nel dar forma all’esaltazione del fascismo, il momento in cui la potenza del regime si rivela fragile e illusoria è deludente e tragico. L’esplorazione contemplativa di un potente immaginario drammatico dà vita a una sequenza di elementi cupi e misteriosi che Sironi incasella ripetutamente nei suoi dipinti: figure abbozzolate, corpi mummificati, alberi dai rami monchi, montagne, frammenti di edifici imprigionati per l’eternità in un claustrofobico limbo, protagonisti senza più speranze di un’epoca ormai conclusa”, scrive ancora la curatrice. In quel mondo considerato in disfacimento, Sironi non si ritrova più, e volge allora il suo sguardo austero alle altrettanto austere montagne, a quegli scenari duri e immensi vissuti in prima persona durante la Grande guerra: “mi è stato rimproverato di non occuparmi di campi coltivati, pittoresco da giardino, da valle, da collina, casette sul mare e simili stupidaggini, ma di vedere soltanto rocce deserte, altitudini desolate dove l’uomo si misura con la vastità dello spirito. Ebbene molti vengono a Cortina e dovrebbero aver visto una notte di luna piena e serena sull’immensa vallata dove, come troni d’argento e di vetro, le vette nevose ascoltano la voce di Dio nell’immenso spazio”.

Marta Santacatterina