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A Pistoia una mostra sugli anni Sessanta e Settanta

categoria: Mostre
13 settembre – 17 novembre 2019

Italia Moderna 1945-1975. Dalla Ricostruzione alla Contestazione

Neoavanguardie, arte programmata, pop art, arte povera, pittura analitica: sono le principali categorie che definiscono in sintesi le tendenze artistiche italiane affermatesi tra gli anni Sessanta e Settanta e che sfociano, nel decennio successivo, nel postmodernismo. L’ambizioso progetto curato da Marco Meneguzzo e allestito in due diverse “puntate” con ben centocinquanta opere in totale di proprietà di Intesa Sanpaolo, si interroga innanzitutto sul significato del termine “moderno” e sulle tante declinazioni che esso ha assunto tra la fine del secondo conflitto mondiale e i cosiddetti “anni di piombo”. Quel periodo insomma che ha visto dapprima la ricostruzione postbellica (non solo materiale, ma anche culturale) e che si è spinto fino all’osservazione degli esiti del boom economico e di tutte le ripercussioni sociali e artistiche che ne sono conseguite. La mostra aperta a Pistoia negli spazi recentemente rinnovati di Palazzo Buontalenti – una delle sedi della Fondazione Pistoia Musei –, fa quindi seguito alla precedente (Le macerie e la speranza) e ne costituisce il naturale sviluppo: all’insegna delle parole chiave del sottotitolo, “benessere” e “crisi”, l’allestimento sfiora i più significativi movimenti che hanno caratterizzato l’intervallo temporale tra gli anni Sessanta e la metà dei Settanta, espone numerose opere di tutti i protagonisti della scena artistica contemporanea, si permette incursioni – assolutamente funzionali al percorso espositivo nonché gradevoli per il pubblico – nella cronaca, nel cinema, e tra le pagine del catalogo persino nelle vignette umoristiche della “Settimana Enigmistica” andando così a tracciare una sorta di compendio di storia dell’arte del secondo Novecento. E per facilitare la comprensione di un periodo talmente complesso – parlando di Lucio Fontana, Meneguzzo ben sottolinea come “i suoi ‘buchi’ (dal 1947) e i suoi ‘tagli’ (dal 1958) costituiscono ancora una specie di scandalo per il pubblico poco avvezzo al linguaggio dell’arte” – le opere sono esposte in base a un criterio in grado di suggerire “un’atmosfera stilistica comune”, privilegiando quindi la compattezza formale al di là di un rigido ordine cronologico. In particolare il curatore sottolinea che la grande svolta inaugurata con la nuova società degli anni Sessanta ha una peculiarità forse non sempre evidente: “il radicale mutamento nella considerazione del ruolo dell’artista, con conseguente (o antecedente) riconsiderazione della funzione dell’arte”. Un mutamento che, con il periodo della contestazione, porta tutti gli intellettuali a interrogarsi sul loro ruolo: “gli artisti non fanno eccezione e anzi sono tra quelli che sono stati più sensibili a questo clima culturale, complici con tutta probabilità i nuovi strumenti linguistici, processuali e tecnologici addottati dalle neoavanguardie già nel decennio precedente”. Nascono allora i gruppi artistici, si consacra l’arte industriale e si porta all’estremo l’astrazione, la tecnologia diventa la base dell’“arte programmata”, il boom economico crea il sostrato per la pop art. In questo susseguirsi di energie, talvolta contrapposte, nel 1967 deflagra il “manifesto” dell’arte povera mentre nei successivi anni “rivoluzionari” la sensibilità di alcuni artisti dà vita all’arte concettuale e alla pittura analitica. Sala dopo sala, si possono quindi incontrare opere di Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, Mauro Staccioli, Giuseppe Spagnulo, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Pino Pascali, Jannis Kounellis, Alighiero Boetti, Giuseppe Penone, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Luciano Fabro, Giulio Paolini, fino a giungere ad alcuni lavori realizzati alle soglie dei fatidici anni Ottanta, “con la loro carica di barbarica imprevedibilità”.

Marta Santacatterina