Art e Dossier

William Kentridge a Spoleto

categoria: Mostre
13 agosto – 2 novembre 2025

William Kentridge. Pensieri fuggitivi

Spoleto
Palazzo Collicola

Cosa sono i Pensieri fuggitivi di William Kentridge? La mostra spoletina, la più ampia realizzata in Italia sull’artista sudafricano, ben si attaglia a spiegarci, con gli esempi più disparati, gli ultimi venticinque anni di attività di una delle figure più rilevanti nel panorama artistico mondiale. Filo conduttore è il flusso continuo del suo pensiero. Quando non è a giro per il mondo, Kentridge lavora in un grande atelier a Johannesburg, dov’è nato nel 1955. Quello studio è il suo mondo, «la sua testa ingrandita», come ama definirlo: rammenta l’officina del dio greco Efesto o di Vulcano, suo omologo nell’antica Roma. I mezzi con cui opera sono i più disparati, classici e moderni. Sono video e anamorfosi, animaletti che paiono di legno ma sono di metallo, mappe di migrazioni forzate, un diavolo con la testa di una moka opposto all’angelo sterminatore di Castel Sant’Angelo. Sono singole, semplici parole fissate su un cartello o reiterate in un video, oppure disegnate su carta, poi cancellate, a formare immagini e concetti diversi. Si nutrono di forme create nel legno, nel bronzo, nel ferro, in vecchie carte di archivi dismessi. Sono alberi che non ci sono più, uccellini proiettati su un tavolo in anamorfosi. Sono un naso in bronzo a cavallo, fra Don Chisciotte, Picasso, Gogol e il profilo stesso di Kentridge. Sono oggetti comuni – un megafono, una macchina da scrivere, una vecchia Singer, una caffettiera – trasformati, di volta in volta, in pensieri o personaggi altri. Si avvalgono di citazioni da Eschilo o Brecht, da poeti antillani come Aimé Césaire e sua moglie Suzanne, che cantano l’orgoglio della negritude, hanno colonne sonore tratte da Beethoven o Šostakovič. Oppure, dall’orrenda Faccetta nera, per rievocare e condannare senza appello l’occupazione fascista in Etiopia. La mostra si è inaugurata a fine giugno in concomitanza con l’unica rappresentazione italiana di A Great Yes, A Great No, esempio di teatro artistico e musicale ideato da Kentridge con canti e lingue diverse che si mescolano a parole e immagini dada, surrealiste, costruttiviste. Con la potenza evocativa della quale l’artista sudafricano è capace, riviviamo anche in mostra le tragedie delle migrazioni forzate, dei genocidi dell’Occidente nei territori dell’Africa subsahariana, ora frazionati e liberi ma non immuni, ancora, da ingiustizie e disuguaglianze; della tratta degli schiavi verso i Caraibi (su questi temi è in uscita nel numero di ottobre di Artedossier l’articolo La moka di William Kentridge). Ma non solo. Nelle sale affrescate di palazzo Collicola Kentridge “dialoga” con antichi dipinti del museo, con efficaci accostamenti voluti dal curatore Saverio Verini. E mentre le note dell’Arciduca di Beethoven si diffondono dal video sui pensieri fuggitivi di Kentridge, la sua mano fa scomparire lettere e forme originali tracciate a carboncino. Non le distrugge, però: come Vulcano fa “esplodere” le composizioni che si trasformano, quasi per moto interno e perpetuo, in immagini che vanno a costituire una storia. E non dimentichiamo, anche se non esiste più (era questo il suo destino) ­ il fregio sulle rive del Tevere, dove Kentridge nel 2016 aveva ridisegnato la millenaria storia di Roma, fra trionfi e lamenti, nel bene e nel male, risparmiando le figure, ovvero “ritagliando” le immagini dalla sporcizia accumulata su cinquecento metri di mura, destinate a dissolversi. La storia è sempre invitata, sempre presente nella mente di Kentridge. Ed è quella che troppo spesso si dimentica: i genocidi, le migrazioni, la schiavitù. Una mostra da non perdere.

Gloria Fossi