Alla Gnam mi misuro
Un'intervista di Federico Giannini
Partiamo dal passato. Il pubblico ricorda Cristiana Collu soprattutto per le esperienze avute al MAN di Nuoro e al MART di Rovereto, centri che sotto la sua direzione hanno acquisito una rilevanza notevole, che spesso ha anche travalicato anche i confini della nazione. Cosa porterà alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di queste due importanti esperienze precedenti?
Immagino... tutto. D'altra parte però c'è un aspetto che mi sta sempre molto a cuore e che fa parte di come sono io: quando sono venuta qui, senza nessuna idea precostituita, la scelta è stata quella di mettermi all'ascolto. E questo ascolto poi verrà tradotto con una serie di azioni che tengono conto prima di tutto del luogo, e che poi tramite la mia esperienza avranno un'impronta che sempre mi ha contraddistinto.
Abbiamo iniziato anche a leggere in giro paragoni con la figura della storica direttrice della Galleria, Palma Bucarelli, che diresse il museo per più di trent'anni, dal 1942 al 1975, facendo per esempio conoscere in Italia l'arte degli espressionisti astratti americani, oppure difendendo l'operato di artisti come Manzoni e Burri che con le loro opere avevano suscitato enormi scandali. In che modo raccogliere questa pesante eredità?
Ci sono due aspetti di questa domanda che mi interessano. Il primo: non penso che sia una pesante eredità, nel senso che io non sento ingombrante nessuna delle persone che mi hanno preceduto. Io ho profondo rispetto per loro, ma non c'è il loro spettro. Tra l'altro questo al MART non è neppure stato possibile, perché il MART è nato con me, ma anche qui io non mi misurerò con chi mi ha preceduto, e non mi misuro neanche con me stessa: mi misuro col progetto, questo è quello che mi interessa di più. Il secondo aspetto: sono molto interessata al discorso dell'eredità e alla responsabilità nei confronti dell'eredità, perché questa responsabilità non può essere soltanto nei confronti del passato, ma credo che siamo tutti impegnati a lasciare un'eredità del presente, che non è solo quella di aver conservato quello che arriva, ma anche quella di lasciare a nostra volta qualcosa di cui, purtroppo, anche chi verrà dopo di noi si dovrà occupare. Il “purtroppo” è ironico ma l'eredità comporta sempre una serie di difficoltà. Certamente è importante capire che cosa si vuol fare di questa eredità: se si vuole solamente imbalsamarla e tentare, in maniera un po' folle, di trasmetterla così com'è, cosa impossibile da fare perché ci sono diversi fattori che non lo consentono, oppure se ce ne facciamo carico, e questo carico non è visto solamente come un peso... è la responsabilità. E quindi è la responsabilità di trasformarla, inevitabilmente.
A Roma, come ben sappiamo, esistono diversi musei di arte contemporanea, pensiamo per esempio al MAXXI o al MACRO: ha già in mente se e come fare sistema per rendere Roma un importante polo dell'arte contemporanea di richiamo internazionale?
Anche questa è una questione che mi sta molto a cuore. Si sente spesso dire che occorre fare rete, fare sistema, come se bastasse costruire una rete a tavolino per farla funzionare. Secondo me non è così: esiste già una rete ed esistono già delle connessioni che sono sotto i nostri occhi. Dovremmo semplicemente fare il meglio possibile, e operare facendo in modo di vedere una finalità che non è solo quella all'interno delle nostre istituzioni, ma è anche quella di un sistema più complesso. Credo che questo sia possibile e che non esistano delle “riserve di caccia”, linee di confine che non si possano travalicare per mantenere gli equilibri: io sono convinta che tutto il territorio ci appartenga e che si debba essere sì rispettosi, ma che non si debba neppure rinunciare alle nostre istanze o ai nostri progetti che sembra possano attraversare diverse epoche e diversi periodi. L'ho fatto anche al Mart con la mostra su Antonello da Messina, per esempio.
Insistiamo giusto su questo aspetto, con l'obiettivo di guardare al futuro: la sua gestione del Mart si distinse anche per mostre notevoli, di grande caratura, pensiamo proprio alla particolare mostra su Antonello da Messina, che dimostrava in modo inequivocabile che tutta l'arte è stata contemporanea, o a quella su El Lissitzky. Mostre che spesso hanno introdotto temi diciamo non facili a un pubblico abituato a mostre più commerciali, e possiamo dire che questa strategia ha avuto un certo successo. Pensa di replicarla anche alla Galleria?
Inevitabilmente. Siamo tenuti a esprimere una nostra visione: io sono molto interessata a prendere posizione. Siccome io so che devo prendere parola e che non posso sottrarmi a questo (altrimenti, del resto, non potrei fare questo lavoro), cerco al contempo di prendere posizione e di esprimere una visione. Quello che è successo al Mart e che succederà anche qui è questo: un'espressione di una parzialità dichiarata, il parti pris alla francese (e non il “partito preso” italiano che ha una connotazione più negativa), che per me crea lo spazio per un dialogo. Nel momento in cui io prendo una posizione offro spazio per la dialettica, la condivisione, il dissenso, nella forma più costruttiva e rispettosa che posso immaginare. Quindi immagino un'istituzione forte, responsabile, che dice delle cose, sapendo che non dice tutte le cose, o che le cose sono esattamente così come prova a dirlo.
La Galleria ha conosciuto un riallestimento del percorso museale, che è peraltro ancora in corso. Quali sono le idee che lo hanno guidato?
Io sono venuta qua, come dicevo, con l'idea di mettermi in ascolto ma anche con qualche ipotesi su quale avrebbe potuto essere la programmazione espositiva. Ho avvertito, mettendomi in ascolto, che fosse necessario concentrarsi sulle “pietre d'angolo” di questa Galleria, e quindi che fosse necessario un riordino della collezione, ma anche, nello stesso tempo, una sorta di remise en forme della Galleria. Ho avvertito la necessità di restituire alla comunità un luogo che è molto amato, molto stimato, vissuto come un punto di riferimento. E ho voluto partire proprio dall'accoglienza. Il 21 giugno abbiamo riaperto il Salone delle mostre e la hall, una hall che viene rifunzionalizzata, in relazione ai servizi. Sarà una hall dedicata all'accoglienza del museo: anche per questo motivo è stata rimossa Passi, l'opera di Alfredo Pirri, che non verrà sostituita da un'altra opera. Perché è stata sostituita dai servizi: la biglietteria, un piccolo caffè, una hall dove si possa stare. A volte i musei, specie quelli italiani, sono un po' come caselli autostradali: si entra, si fa il biglietto, e poi ci si avvia verso le sale. Ho voluto invece immaginare una hall che potesse accogliere, e non pretendere che le persone visitassero necessariamente le nostre mostre, ma che riconquistassero uno spazio dove poter stare, leggere, collegarsi a internet con la rete wi-fi, spendere del tempo.
Il museo dunque dev'essere un luogo accogliente, idea data per scontata, ma che spesso non viene realizzata. In un'intervista nel 2014, lei dichiarava che un museo "non deve tenere lezioni di storia dell'arte, perché un museo non è un manuale" e che "un museo di successo oggi deve comunicare prossimità e familiarità". Esiste secondo lei una formula, o comunque una serie di azioni da intraprendere, tali da far sì che il museo possa essere davvero "prossimo e familiare" al grande pubblico?
Come sempre non ci sono ingredienti segreti. Per me è tutto strettamente collegato a essere buone persone del nostro tempo. Io voglio fare il mio tempo, e nel fare il mio tempo spero di essere un'interprete di questo presente, anche perché le filosofie orientali ci hanno insegnato che non esiste altro tempo all'infuori di questo. Se io sono una persona del presente cerco dunque di tradurre le esigenze: non solo quelle che sento come mie, ma anche quelle che raccolgo ascoltando. Questo però non significa appiattirsi, significa capire che le cose sono cambiate e che il pubblico ha esigenze diverse di cui tener conto.
Sempre per rimanere in tema di "rapporto con il pubblico", approfondiamo brevemente il rapporto tra pubblico e arte contemporanea, un rapporto spesso conflittuale anche per il fatto che, come Lei sosteneva nell'intervista di cui sopra, il contemporaneo "ci rimette in discussione". Su quali basi la Galleria, sotto la sua direzione, cercherà di dialogare con il pubblico in tema d'arte contemporanea?
Il contemporaneo mi appartiene perché è il tempo in cui vivo: credo che sia importante soprattutto trasmettere un'attitudine, che possa essere condivisa. Per me è dunque inevitabile che l'arte contemporanea sia presente nel museo e che dica la sua, soprattutto con gli artisti viventi, che penso siano quelli che più di ogni altro siano in grado di poterci dire qualcosa.
Passiamo all'argomento comunicazione in rete: a molti musei si rimprovera una scarsa presenza sul web. La Galleria è uno dei musei che si dà più da fare in questo senso: il sito web è costantemente aggiornato, è presente anche una seppur incompleta catalogazione delle opere, e da qualche tempo vediamo una presenza social sempre più consistente. Anche in questo ambito, forte delle sue esperienze precedenti, ha già in mente idee per migliorare la situazione?
Nel momento in cui ho immaginato il riordino di cui parlavamo prima, ho immaginato che ogni aspetto del museo dovesse trasmettere una notevole cura: per questo anche la comunicazione web dev'essere tenuta in seria considerazione. Abbiamo lanciato da poco il nuovo sito web, lavorandoci molto, perché quello precedente era un sito istituzionale e ministeriale che corrispondeva a una sorta di omologazione necessaria, e il sito nuovo ha cambiato soprattutto il linguaggio, la velocità, l'adattabilità ai dispositivi di lettura. Il sito deve fornire notizie e approfondimenti, dev'essere una piattaforma in costante evoluzione: niente pertanto è definitivo. Abbiamo poi pensato anche a una nuova immagine coordinata. Per esempio, io credo che la Galleria debba chiamarsi “Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea” e che l'acronimo “GNAM” non le appartenga perché è più specifico di musei nati di recente e che è giusto si chiamino così. Abbiamo poi pianificato le strategie sui social network: è un discorso che mi sta molto a cuore, malgrado io non sia presente su nessun social network, perché è uno strumento straordinario per il discorso di familiarità e prossimità di cui si parlava prima, e per coinvolgere il pubblico, anche per sapere che cosa pensa.
Lasciamoci con un'ultima domanda, a cui rispondere giusto con poche battute: quali sono, secondo Lei, le tre principali sfide che la GNAM dovrà affrontare nell'immediato?
È una domanda molto complessa perché sono tutte intrecciate tra loro. Una riguarda l'aspetto economico e finanziario: deve cambiare l'attitudine. Ed è collegata a una seconda sfida: la riforma del Ministero ci chiede di fare questo “matrimonio morganatico” tra pubblico e privato, che vedo sotto molti aspetti, non solo sotto quello economico. Infine, sulle mostre: vorrei che le mostre che faccio non rincorressero un programma che potremmo definire “accattivante”. Ho molta stima del pubblico dei musei e l'ho sempre avuta: credo che il pubblico dei musei sia composto da persone che hanno un'enorme percezione della cura che uno mette nelle cose, e questo fa sempre la differenza.