Christoph Büchel trasforma la Fondazione Prada di Venezia in un monte di pietà
Scavare, ribaltare e mettere a nudo: è questa la triade di azioni compiuta da Christoph Büchel lungo i piani di Ca’ Corner della Regina, sede veneziana della Fondazione Prada che, sino al 24 novembre 2024, ospita Monte di Pietà, la mostra tentacolare dell’artista di origini svizzere, classe 1966.
Büchel scava nella storia dell’edificio affacciato sul Canal Grande, riesumando una delle sue identità: ex dimora di mercanti, nel 1834 il palazzo assume la funzione di Monte di Pietà, mantenendola fino al 1969. Parcellizzati in stanze claustrofobiche, anfratti e angoli a senso unico – alternati a spazi di più ampio respiro ‒, gli ambienti di Ca’ Corner della Regina si trasformano nella macchina scenica architettata da Büchel per ribaltare le logiche di valore assegnate agli oggetti che saturano fisicamente le pareti, i pavimenti, le scale e perfino la colonna d’aria del cortile interno. Capi di abbigliamento, dipinti, fucili, gioielli, libri, sedie, barelle, candele, ex voto, lamiere di automobili, lavatrici: qualsiasi oggetto diventa catasta, superfluo, rifiuto da mandare al macero, capovolgendo la preziosità del pegno come garanzia di prestito. Se il superfluo diviene accumulo ‒ senza distinzione di epoca, provenienza, utilità ‒, la logica del soldo – gli “schei” della tradizione dialettale e i bitcoin della traduzione tecnologica ‒ balza all’occhio con ferocia. Se in passato il pegno era sinonimo di credito, e di conseguente debito, oggi i termini della transazione seguono regole policentriche su scala esponenziale. Il pegno non è del singolo, ma della collettività, il credito è volatile, il debito è globale e aumenta – come ci ricorda Büchel mediante uno schermo – di minuto in minuto. La merce serve e ingrossa il mercato, ma, nelle polarità esacerbate dall’economia odierna, è pronta a diventare superfluo e rifiuto da smaltire, innescando smottamenti ecologici che anticipano il tracollo planetario. Büchel mette a nudo questo processo ed estende il ragionamento alla città di Venezia e al sistema dell’arte.
Assaltata da un turismo sempre meno consapevole, Venezia subisce la svendita di se stessa attraverso la mercificazione di elementi posticci che nulla hanno a che fare con la sua storia e con il suo presente in quanto organismo vivo. Anche in questo caso gli “schei” si impadroniscono della scena, ma schei è pure il nome del token promosso su TikTok dalla granfluencer Regina de schei con l’obiettivo di creare un nuovo profitto e distribuirlo agli abitanti di Venezia, città che ha contribuito a scrivere le regole dell’economia di scambio. Quanta dose di realtà potrebbe esserci, tuttavia, in uno strumento che tutela i residenti in fuga da un contesto urbano quotidianamente a rischio svendita? Smaterializzati dagli algoritmi digitali, gli “schei” sono in grado di generare valore non solo finanziario?
Büchel chiude il cerchio del ragionamento chiamando in causa la propria arte. The Diamond Maker, l’opera in progress avviata nel 2020, è una valigia contenente una serie di diamanti realizzati in laboratorio ed esito del procedimento di distruzione applicato dall’artista ai suoi stessi lavori, passati e futuri. L’opera sembra dunque perdere la propria unicità e si tramuta in una fila scintillante di pegni tutti uguali e sbrilluccicanti di una luce sintetica. Anche i diamanti, stipati in un contenitore e affiancati a decine di oggetti distinguibili aguzzando bene lo sguardo – tra i quali finiscono anche le scatolette di Merda d’Artista di Piero Manzoni, gli Zero Cent di Cildo Meireles e monete del XVIII secolo, per fare un esempio ‒, entrano nel novero dell’accumulo e del superfluo, di un lusso spogliato di valore, nonostante si tratti, paradossalmente, di opere d’arte. E allora, se si aguzza ancora meglio lo sguardo, fra le pile di oggetti si scorgono gli interventi di Giulio Paolini, Michael Landy, Santiago Sierra, Chris Burden, Andy Warhol, ma anche medaglie cinquecentesche, sigilli in bronzo dell’epoca romana imperiale, unguentari del I secolo a.C., un ritratto di Tiziano. Da tempo immemore, la domanda resta sempre e soltanto una: qual è il valore di un’opera d’arte? Quali fattori lo rendono tale? E soprattutto: riaccendere la miccia di una riflessione mai sopita in una sede istituzionale ‒ giocoforza inclusa nel sistema di assegnazione di valore trasversale alla moda, alle arti visive e a infiniti altri ambiti produttivi ‒ è una scelta efficace? Oppure, per cambiare gli ingranaggi del meccanismo, quest’ultimo va smontato pezzo dopo pezzo?
Christoph Büchel ha dato prova di sapersi muovere sul terreno scivoloso plasmato da simili domande, che lui stesso suscita per mezzo di lavori capaci di attivare la soglia d’allerta del “sistema” in cornici istituzionali. Basti pensare a Barca Nostra – il relitto del peschereccio su cui trovarono la morte centinaia di migranti nel canale di Sicilia nel 2015, esposto alla Biennale Arte di Venezia del 2019 ‒, al community centre installato dall’artista nella sede della galleria Hauser & Wirth a Piccadilly, nel cuore di Londra, nel 2011, o, ancora, al sex club aperto nel Palazzo della Secessione a Vienna nel 2010. Büchel sfida e provoca in maniera intelligente, caustica. Ma quanto il contesto influenza, protegge e determina il valore dell’opera(zione)?
Arianna Testino