Il racconto è tempesta: la mostra di Belinda Kazeem-Kamiński a Kunst Meran Merano Arte
Una storia di dolore e di deportazione, l’arte come riparazione e testimonianza. Aerolectics, la mostra dell’artista e ricercatrice austriaca Belinda Kazeem-Kamiński presso Kunst Meran Merano Arte, la sua prima monografica in Italia, a cura di Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi, prende avvio dalla vicenda di tre ragazze sudanesi, nel 1855 lasciate in un convento di suore orsoline di Brunico da un sacerdote, Niccolò Olivieri, che le aveva comprate in un mercato di schiavi al Cairo. Come altre centinaia di persone nere, soprattutto bambini e bambine («banalmente perché costavano meno», spiega l’artista), le ragazze erano state deportate in Europa dai missionari, sovvenzionati dalla Chiesa, con lo scopo di battezzarle ed educarle al cattolicesimo e, in ultima istanza, rimandarle in Africa ad evangelizzare le popolazioni locali. I documenti degli archivi conventuali raccontano l’inserimento forzato di Asue*, Gambra* e Schiama* (con l’asterisco perché i nomi sono noti solo attraverso trascrizioni) nella struttura religiosa, e il comportamento “tempestoso” di Asue*, giudicata inadatta dalle suore, a volte punita e legata urlante per ore. Una storia sconvolgente, scoperta dall’artista quasi per caso e i cui contorni sono ancora da definire, che getta nuova luce sul ruolo del sistema missionario nella diaspora africana nei luoghi di lingua tedesca e in particolare nell’Alto Adige. In questa zona passa la Linea insubrica, la faglia di contatto tra la placca tettonica europea e quella africana che attraversa e divide l’area alpina per mille chilometri dal Canavese fino alle Alpi Carniche, individuata da Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi come simbolo geografico e culturale di incontro fra culture, nonché come titolo dalla collettiva che ha inaugurato il loro programma curatoriale triennale presso Kunst Meran Merano Arte, The Invention of Europe: A Tricontinental Narrative (2024-2027). Un progetto di ampio respiro, di cui Aerolectics è il secondo capitolo, che indaga in modo problematico la costruzione nel tempo dell’identità europea, fondata anche sul sistema coloniale e sull’appropriazione violenta di risorse fisiche, intellettuali e culturali dal resto del mondo.
Per restituire alle tre ragazze, e in particolare ad Asue*, la loro storia, l’artista affronta con linguaggi diversi – video, fotografia, performance, scultura, scrittura, suoni, luci – il tema della tempesta («Per scoprire questa storia, dobbiamo aprire le porte e invitare la tempesta ad entrare») e dell’incontro tra gli elementi terra, acqua, fuoco e aria nelle opere site-specific nelle sale dei tre piani di Kunst Meran, a partire dal testo della grande installazione poetica visibile dall’ingresso, dall’atrio e dalle scale («…you have gagged me with ropes/ fibers prick my flesh/you call me a storm/ and want to calm me down/tame/ and domesticate me/ so you tore us from our homelands/ powered by faith»…). Il percorso espositivo inizia dalla terra, dalle cartine geografiche cosparse di pietre e trafitte da spilli – a simboleggiare le persone deportata nei singoli luoghi –, che nelle stanze al piano terreno, forniscono un orizzonte visibile specifico, un paesaggio fisico, alla storia delle ragazze.
Nella stanza successiva, l’inizio dell’indagine, la videoinstallazione Rub, Rock, Earth. Throat Clearing, mostra, in inquadrature ravvicinate, due corpi di lottatrici che si afferrano, premono e si scontrano, in un variabile equilibrio di forze, come le placche tettoniche sulla Linea insubrica, mentre l’artista, “schiarendosi la voce”, come a prendere fiato per cominciare il racconto («This is a story of a girl who turned into a storm»), pronuncia i nomi dei protagonisti, le date, i luoghi, e dichiara: «Telling a story summons movement, like a storm gathers strenght by twisting and turning». Un altro video, Nursery Rhymes (Holy) Water, attraverso una filastrocca ripetuta e gli abiti bianchi di bambine, poi adulte, che cantano muovendosi in cerchio, ci parla della cancellazione dei nomi delle tre ragazze e delle loro identità originarie attraverso l’acqua, l’acqua del mare attraversato sulle navi della deportazione, l’acqua del battesimo forzato.
Presenza dall’intensa carica simbolica e rituale, il gruppo di nkisi in ceramica (materiale che deriva dalla combinazione dei quattro elementi), trafitti dai chiodi, posizionati su uno specchio sotto una luce rossa come il fuoco, è testimone dei fatti perpetrati e allo stesso tempo legame materiale e spirituale con la terra d’origine.
Nel video Oya! (Fire), al terzo piano, l’artista indossa un’ampia maschera di rafia, visibile nella stanza. L’energia della performance scaturisce nel movimento e nel grido che riempie lo spazio con l’intensità della tempesta. Un grido di rabbia e di dolore, di volontà di vendetta e di riscatto.
Chiude l’esposizione un’area di studio in cui sono consultabili le fonti principali dell’artista (in particolare gli studi della storica Ute Küppers-Braun), e un’installazione, sulle pareti, con i nomi delle persone africane deportate e i luoghi dove poi hanno vissuto in Italia, ricavati dalle liste dei missionari e delle strutture religiose: a volte il nome originario è rimasto, a volte si conosce solo il nome attribuito con il battesimo, a volte non si sa nemmeno quello: una “X” e un luogo sono quanto rimane di storie di dolore che ancora devono trovare un posto nella memoria collettiva. E questi sono solo i casi documentati: anche con il lungo lavoro degli storici, se della sorte delle ragazze si sa qualcosa, dei ragazzi non si conosce quasi niente. «Questa mostra non vuole presentare un risultato, ma un processo di ricerca in corso», spiega Kazeem-Kamiński.
La mostra, realizzata anche con la collaborazione degli studenti allievi di Cippitelli, docente di Estetica all’Accademia di Brera, è accompagnata da due momenti di approfondimento: il 16 marzo il seminario Riparare e restituire. Sulle funzioni redistributive delle istituzioni museali, sostenuto dal Ministero della Cultura e dalla Direzione Generale Educazione, Ricerca e Istituti Culturali, con la partecipazione di ospiti internazionali, che intende far emergere la parzialità delle narrazioni museali e promuovere uno scambio paritario tra culture; l’11 aprile una serata di musica e performance in collaborazione con Festival Sonora, con Belinda Kazeem-Kamiński, Masimba Hwati e Nkisi.
Ilaria Ferraris