Premio Cartier a Julian Schnabel
"Do not move
Let the wind speak
That is Paradise”
"Non ti muovere
Lascia parlare il vento
Così è paradiso"
Ezra Pound, traduzione in italiano di Mary Pound, citato da Nick Tosches , In the Hand of Dante
Julian Schnabel vince il premio Cartier - Glory for the Filmaker con il film In the Hand of Dante. Oltre la regia, Schnabel firma la sceneggiatura con Louise Kugelberg, riscrivendo per lo schermo il romanzo omonimo di Nick Tosches (United Kingdom: Little, Brown, 2002), tradotto in italiano con il titolo La mano di Dante (Mondadori, 2004, pp.380). Fra i produttori anche Martin Scorsese, Jon Kilik, famoso con le sue produzioni per Spike Lee, oltre ai curatori e galleristi Olmo e Vito Schnabel.
Cosa succederebbe se New York fosse come Firenze, Nick Tosches come Dante e i bassifondi newyorkesi fossero l’Inferno, la vita quotidiana nella metropoli un Purgatorio e la completa libertà artistica il Paradiso…
Questo è il gioco che propone Julian Schnabel, parlando di se stesso e dichiarando la sua intenzione estetica. L’artista newyorkese rifiuta l’estetica neoplatonica e tomistica di Dante, lavorando per giustapposizioni di materiali eterogenei, trasformando il sublime in splatter e il comico in ridicolo. La vita di Dante alla ricerca di ispirazione nel paesaggio siciliano, rappresentato vivido e a colori, corrisponde alla deriva in bianco e nero di Nick nelle strade più cupe di New York con Louie, suo mentore nella malavita dei bassifondi. Il rischio estetico che Schnabel decide di affrontare per appropriare la Commedia Dantesca è la perdita completa del contesto significante e del significato, inutile per il suo lavoro, a favore della pura esperienza del processo estetico di composizione.
La storia, raccontata anche dal romanzo, vede Nick (Gerald Butler) ascendere dai bassifondi newyorkesi delle origini siciliane, immancabilmente mafiose, alle riflessioni sulla propria estetica, mentre assoldato da un capo mafioso italo-americano (John Malkovich) deve dimostrare l’autenticità dell’unico manoscritto autografo della commedia di Dante Alighieri (Oscar Isaac), ritrovato da un prete siciliano negli archivi della Biblioteca Vaticana.
L’origine ebraica e l’appartenenza israeliana degli attori protagonisti non ha mancato di attirare le proteste dei movimenti avversi alla guerra in Palestina il giorno della prima proiezione, con la disapprovazione di Schnabel che ha dichiarato gli artisti innocenti per definizione.
Il film si svolge su tre piani che intrecciano lo spazio e il tempo della narrazione fra la vita di Dante Alighieri in viaggio in Italia nel medioevo, il novecento non precisato dello scrittore newyorkese e lo sfondo dell’esperienza estetica condivisa fra il regista e chi guarda, che ne ridefinisce il tempo attuale. Questa profondità di piani è la scelta più coraggiosa e difficile del film e rispecchia quella del romanzo da cui è tratto.
La mise en abyme dello scrittore che riflette sul suo lavoro, mentre cerca di provare che il manoscritto è autentico, è piena di riferimenti sia alle opere cinematografiche precedenti di Schnabel (Basquiat, 1996, Before the Night Falls, 2000 premiato a Venezia con il Leone d’oro, The Diving Bell and The Butterfly, 2007; At Eternity’s Gate, 2018) sia al suo universo visivo, dato il ruolo non neutro delle scenografie curate da Louise Kugelberg, compagna di Schnabel anche nella vita reale. Nell’estetica si rivela coincidente con il testo letterario di Tosches, cui il regista si riferisce per raccontare Dante, di cui si dichiara non esperto conoscitore. Tosches riflette in Dante le parole di Pound, il suo cielo è un cielo vero, è natura che salva e l’arte, coincide con la vera natura dell’umano. Ma la verità coincide con il desiderio, non coincide con l’Idea.
Irene Guida