Art e Dossier

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Della nostalgia di una mancanza: Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo

categoria: Grandi Mostre
7 March – 30 June 2024

Out fo Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo

L’idea della collezione Imago Mundi corrisponde al desiderio di restituire una immagine corale del mondo, attraverso opere di artisti agli inizi della propria carriera, come tessere un grande tappeto, una eterotopia aurorale degli immaginari contemporanei. La mostra e la collezione in questo gesto coincidono. Come nella moda, ogni collezione è fatta per essere mostrata fin dall’inizio. 

Imago Mundi inizia nel 2006, con un collezionista che, visitando uno studio d’artista insieme con un curatore, riceve invece di un biglietto da visita una piccola tela. Il collezionista era Luciano Benetton, il curatore Claudio Scorretti. La sede è a Treviso alle Gallerie delle Prigioni

Out fo Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo utilizza lo stesso formato per georeferenziare l’immaginario dei campi di rifugiati in tutto il mondo. A cura di Claudio ScorrettiIrina UngureanuAman Mojadidi, questa collezione – mostra è una operazione  semplice e potente. Divisa in tre parti, il racconto dei campi da artisti rifugiati o sfollati che tuttora li abitano, il racconto di chi è riuscito a diventare migrante, e il Labirinto, galleria – mosaico di ritratti e racconti raccolti in Italia dal giornalista Luca Assante e dal fotografo Mohamed Keita. Centosettantaquattro opere di dieci per dodici centimetri di centoquarantadue artisti che vivono o hanno vissuto l’esperienza del campo, più tre installazioni. La mostra rivela una persistenza di temi, esperienze, desolazioni e consolazioni paragonabili a quelle narrate da chi ha vissuto luoghi confinati dove si sperimenta una sospensione dei propri diritti di cittadinanza, per non dire una esperienza di riduzione allo stato di puro essere vivente, senza alcuna altra connotazione. Se questa fosse condizione volontaria e scelta, sarebbe una declinazione mistica del puro essere, una forma estrema di resistenza al potere al suo grado massimo di annientamento, una vittoria contro qualsiasi costrizione. Questo atteggiamento è quello raccontato da Etty Hillesum nei suoi diari e lettere da Auschwitz. Ma se questa riduzione viene imposta in modo asimmetrico per arginare fenomeni migratori dovuti a conflitti, sia all’interno di un singolo paese che fra paesi diversi, allora questa estreneazione diventa una violenza senza ragione, una riduzione biopolitica alla “nuda vita”, per dirla con Giorgio Agamben di Homo Sacer. A partire dal titolo, espressione mutuata da un testo di Edward Said, Out of Place riesce in un intento molto preciso.  Descrivere lo stato d’animo di estraneamento, attraverso i lavori degli artisti che vivono o hanno vissuto l’esperienza dello sradicamento forzato, dimostrando allo stesso tempo la condizione generativa e creativa dello sradicamento. La mostra restituisce una mappa dei conflitti globali più rilevanti, insieme con l’evidenza che i campi hanno raggiunto una dimensione urbana. Sono delle vere e proprie città per l’estensione nel tempo e nello spazio e per la densità di popolazione. In questo contesto, dunque, Out of Place – Fuori posto diventiamo anche noi nelle nostre città. Il campo parla di noi, qui e ora. Se per ogni campo esiste un conflitto, allora Out of Place è una grande mappa dei conflitti, ma anche delle speranze di chi li vive.  

 Il dispositivo narrativo della mostra usa i piani della prigioni per presentare i campi più estesi e più popolati. In basso, all’inizio del percorso espostivo, le opere dai campi più grandi per estensione e popolazione. Kutapalong, in Bangladesh, luogo di rifugio di una minoranza islamica in fuga dal Myanmar, i Rohingya, in conflitto con la maggioranza buddista del paese. Kutapalong è grande come milletrecento campi da calcio, occupati da seicentomila persone. Per immaginare la densità, bisognerebbe immaginare una partita con due squadre di duecentotrenta giocatori ciascuna, per ognuno dei milletrecento campi. Le milletrecento partite si giocherebbero ininterrotte dal millenovecentonovantuno. Si può continuare il gioco di trasformare in campi da calcio e in durata di partite tutti gli altri campi ancora esistenti in Kenya, Giordania, Uganda, Etiopia, Burundi, Somalia, Costa d’Avorio e Sudan, raccontati in cifre e poi attraverso le opere nei successivi livelli delle Prigioni. Seguono le sezioni dedicate al conflitto in Afghanistan, con le descrizioni dei flussi migratori generati dall’abbandono del terreno da parte degli Stati Uniti, e quelle dedicate ai campi in Giordania. 

L’immaginario sull’Afghanistan potrebbe da solo riempire più di un museo, e in parte dal punto di vista geopolitico lo ha raccontato Adam Curtis in Hypernormalization, documentario reperibile gratuitamente sul canale YouTube del documentarista inglese. 

Attraverso la figura retorica dell’elenco e dell’accumulazione delle opere, il pregiudizio orientalista generatore del conflitto Oriente-Occidente, - descritto da Edward Said in molte sue opere, - finalmente si dissolve in volti e persone, nell’incontro con l’altra persona, invece che con la folla oscura e minacciosa che assale la fortezza europea. Un’opera racconta con grande forza la nostalgia di questa mancanza di casa, l’installazione multimediale Reframe “Home” with Pattern of Displacement, di Rushdi Anwar, costituita da un tappeto ritagliato e sagomato, in cui è impossibile, anche se si vorrebbe, sedersi per vedere un video di venti minuti che documenta e descrive la vita dei campi del Kurdistan iracheno durante una residenza del 2016. In questo tappeto le parti mancanti sono riportate ai lati o ai bordi, un po’ più consunte o come bruciate, alcune non si riescono più a ricomporre e lasciano una lacuna, che non riesce a infrangere la forma generale del tappeto. Esse sono la cifra del vivere fuori luogo, anche a casa, anche in se stessi, sulla soglia fra creazione e distruzione di mondi. 

 Queste lacune dicono la nostalgia di una mancanza.