Giovanni Segantini: biografia
Nato il 15 gennaio del 1858 ad Arco, in Trentino, Giovanni Battista Emanuele Maria Segatini (la “n” del cognome con cui è noto fu aggiunta più tardi per assecondare il soprannome “Segante” con il quale Giovanni fu chiamato dai compagni dell’Accademia di Brera) subisce, durante l’infanzia, una serie di traumi che contribuiranno a trasformare la sua vita da adulto in una continua ricerca di equilibrio, di lusso sfrenato e di isolamento lavorativo. A sette anni perde la madre, Margherita de’ Girardi, morta in seguito a una grave malattia nel 1865. In aprile, il padre, Antonio Segatini, venditore ambulante di chincaglierie in perenne crisi finanziaria, decide di portare a Milano il piccolo Giovanni, affidandolo alla sorellastra Irene, la quale non riuscirà a prendersene cura. Nel 1870, quattro anni dopo la morte del padre, Giovanni, infatti, viene arrestato a Milano per vagabondaggio e internato al riformatorio Marchiondi. In seguito a un tentativo di evasione, ne esce all’inizio del 1873 per interessamento del fratellastro Napoleone, che tenterà, poi, di avviarlo alla fotografia nella propria bottega in Trentino. Giovanni, però, preferisce tornare a Milano e iscriversi, nel 1875, all’Accademia di Belle Arti di Brera, frequentando i corsi serali (fino al 1879). In quegli anni, studiando con passione i pittori del naturalismo lombardo (soprattutto il “luminista” Tranquillo Cremona), diviene uno degli artisti più dotati della scuola milanese. L’incontro, nel 1880, con il pittore, critico e mercante Vittore Grubicy, che lo incita a seguire gli esempi del “pointillisme” francese, ancora poco noto in Italia, gli garantirà una maggiore sicurezza economica attraverso un contratto con cui, in cambio dell’esclusiva sulla sua produzione, questi gli avrebbe offerto uno stipendio settimanale. In quell’anno Segantini si trasferisce a Pusiano, in Brianza, dove vive con la compagna di tutta la vita, Bice Bugatti, in seguito madre dei suoi quattro figli. In Brianza, inoltre, Giovanni condivide il lavoro con il pittore Emilio Longoni (anche lui finanziato da Grubicy). Nel 1885, in seguito all’esposizione di quattordici tele e cinque pastelli alla Società per le belle arti ed esposizione permanente di Milano, realizza a Caglio, ancora in Brianza, l’opera Alla stanga, apice della ricerca naturalista di quel periodo, che, nel 1886, vincerà una medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Amsterdam. A partire da quell’anno, Segantini si stabilisce (fino al 1894), insieme alla sua famiglia, a Savognino, un villaggio delle Alpi grigionesi, divenendo così il “pittore della montagna” e dando inizio alla fase dell’adozione della tecnica divisionista, ufficialmente inaugurata con la seconda versione del dipinto Ave Mariaa trasbordo (1886-1888). Dalla fine degli anni Ottanta, le sue opere raggiungono una discreta fama a livello internazionale, con la partecipazione alla Mostra italiana a Londra del 1888 e all’Esposizione Universale di Parigi del 1889. Ben presto, dunque, decide di ribellarsi alla tutela artistica di Vittore Grubicy, avvicinandosi, invece, al fratello Alberto Grubicy, che diverrà il suo nuovo mecenate. Risalgono a questo periodo i più grandi capolavori di Segantini, come Le due madri (1889), Il castigo delle lussuriose (1891), Le cattive madri (1894) e L’angelo della vita (1894), che porteranno il suo “divisionismo” tecnico in una dimensione simbolista, assimilabile ai modi del linguaggio figurativo mitteleuropeo e della Secessione viennese. Il sostanziale verismo delle sue opere conoscerà una vera e propria evoluzione graduale verso nuovi interessi allegorici e letterari, intessuti di uno spiritualismo di matrice decadentistica. In questa ricerca di spiritualità e di meditazione rientra il suo bisogno di immersione purificatrice nella natura incontaminata delle montagne svizzere, che lo porterà a Maloia, in Engandina, dove avrebbe vissuto con la famiglia, dapprima nello chalet Kuomi, in seguito (per mancato pagamento dell’affitto e delle tasse) nel castello Belvedere. Nel 1895, alla I Biennale di Venezia, gli viene conferita una medaglia per l’opera Il ritorno al paese natio, che sottolinea il livello europeo di Segantini, al quale, nello stesso anno, la rivista della Secessione di Berlino “Pan” dedica un intero numero. Per il padiglione svizzero dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900 l’artista, già nel 1898, si accinge a elaborare un complesso progetto, il Trittico della natura, che rimarrà incompiuto a causa della sua improvvisa morte avvenuta ad alta quota, in una baita dello Schafberg, il 28 settembre del 1899 per un violento attacco di peritonite.
Giovanni Segantini: le opere
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Alla stanga
1886
olio su tela; 169 x 389,5
Roma, Galleria nazionale d’arte modernaL’opera, eseguita a Caglio nell’autunno del 1885, ottenne un successo quasi inaspettato: una medaglia d’oro ad Amsterdam, recensioni entusiastiche sulla stampa e l’acquisto da parte del governo italiano per la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, seppure a un prezzo modesto rispetto alle enormi spese sostenute da Segantini per portare avanti l’opera. La modella che appare in primo piano era stata pagata dall’artista, il quale aveva anche stipulato un contratto per cui gli animali, per essere dipinti, venivano tenuti nel campo e riportati indietro ogni giorno. La stanga era più precisamente lo steccato che segnava il confine tra il pascolo della mandria di Caglio e quella di Sormano, il paese adiacente. Il vasto paesaggio di pianura e di altipiano trasmette un senso d’infinito, mentre il cielo ridotto a una linea stretta in controluce crea l’atmosfera malinconica tipica di una giornata al suo termine, il senso di passività della natura di fronte al proprio destino ineluttabile. L’intera composizione è organizzata intorno a una linea diagonale su cui si concentra l’attenzione e verso cui convergono i piani paralleli del cielo, delle montagne, dell’altipiano e della pianura dalla luminosità contrastante. L’ora del giorno è suggerita dall’ombra delle vacche e dalla luce intensa sulle loro groppe. Esse, insieme a tutto il paesaggio, sembrano incarnare l’epopea della vita contadina, della sua bellezza e della sua miseria, attraverso, soprattutto, la pacata armonia dei colori e delle accurate pennellate.
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I miei modelli
1888
olio su tela; 65,5 x 92,5
Zurigo, KunsthausIl dipinto rappresenta realmente due modelli dell’artista: Baba, la fedele domestica e un ragazzo suo cugino, figlio della cuoca. La tela appartiene al filone di ricerca di Segantini sulla luce artificiale (come Le due madri). Qui, però, non è una stalla ma un normale interno, una qualsiasi stanza in cui l’oscurità assoluta è rotta improvvisamente dalla luce della lanterna che il ragazzo tiene in mano e che è anche l’unica fonte luminosa del quadro. Nella stanza, che è evidentemente lo studio dell’artista, vediamo, nella penombra, due reali dipinti di Segantini, uno sul cavalletto (il bozzetto di Ritorno all’ovile), l’altro sul pavimento (la prima versione dell’Aratura), attraverso l’utilizzo, dunque, dell’artificio del “quadro nel quadro”. I due ragazzi sembrano avere un’espressione di devota ammirazione, data, più che dai volti ridotti a semplici profili in controluce, dall’atteggiamento dei loro corpi rivolti verso il cavalletto. La struttura della scena, creata da forme aperte e chiuse e dal valore contrastante della luce, vuole comunicare la sensazione emozionale della birichinata, della scappatella nello studio dell’artista. Dell’opera esistono due disegni su carta: uno che è una fedele replica del dipinto e l’altro che lo riprende in versione speculare.
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Le due madri
1889
olio su tela; 157 x 280
Milano, Galleria d’arte modernaIl grande quadro - forse il più famoso di Segantini - fu esposto nel 1891 alla Triennale di Brera, vicino all’eterea Maternità di Previati, dove riscosse un largo successo. Fu considerata la prima apparizione pubblica del divisionismo in Italia: in effetti, l’uso della tecnica divisionista crea una particolare tensione tra le zone di luce e di ombra, accentuando, così, la forza simbolica dell’immagine. Le pennellate minute, non mescolate, dei toni ocra, gialli, grigi e biancastri descrivono nervosamente le forme su una superficie tattile e sensuale. La struttura compositiva è basata su una successione di piani orizzontali paralleli, interrotti dal gioco degli elementi verticali della porta sulla destra. L’intimità emotiva e misteriosa della scena è data dall’opposizione dialettica, di invenzione caravaggesca, tra la luce indiretta, artificiale, della lanterna che pende dal soffitto e il buio dell’ambiente chiuso della stalla. Le due maternità (umana e animale) sono accostate con un doppio senso, popolare, quotidiano, ma anche spirituale e simbolico. La mucca alla mangiatoia sembra dimentica del suo vitellino addormentato sullo strame, così la giovane contadina assonnata che tiene in grembo il suo bambino, come se la partecipazione delle due madri al ciclo eterno della vita si sviluppasse quasi a loro insaputa.
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Il castigo delle lussuriose
1891
olio su tela; 97,5 x 171
Liverpool, Walker Art GalleryCome scrive, a proposito di Segantini, A.-P. Quinsac: "La perdita della madre in un’età così precoce spiega sia la centralità del tema della maternità nella sua opera che l’ambivalenza nella sua rappresentazione. Per lui, come per tanti dei suoi contemporanei, la maternità è la missione primaria e ineffabile della donna, la “raison d’être” della sua esistenza". Le “lussuriose” sono, dunque, le donne che, in una visione moralista, sono da punire poiché rinunciano alla maternità, dedicandosi al piacere sensuale che non porta frutto (con allusione, forse, alle “sorelle di Saffo”). La scena creata da Segantini, dal sapore Art Nouveau, possiede una particolare intensità onirica e un senso di eternità, creata dalla voluta assenza di leggi prospettiche, in cui la profondità è cancellata dalla zona d’ombra (bluastro-purpurea e grigio argentea) tra il primo piano e la montagna. Qui si stagliano fluttuanti una coppia di figure bianche in primo piano e altre due sul fondo, rivolte verso poli inesistenti e elevate verso il Nirvana dagli alberi che s’innalzano, tendendosi verso i loro capelli. Il loro destino di redenzione sta per compiersi, in quel terribile paesaggio di ghiacci, spezzati da alberi morti, nella cornice ambientale montana, che non è altro che quella del Maloja con la Val Marozzo.
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Mezzogiorno sulle Alpi
1891
olio su tela; 77,5 x 71,5
San Gallo, Fondazione FischbacherSeppure in questo paesaggio non sia rintracciabile nessun preciso riferimento topografico, la descrizione dettagliata dei suoi elementi, resi attraverso l’uso di colori complementari, riesce a catturare perfettamente l’immobilità della luce cristallina, tipica delle Alpi in estate. Le pennellate, divise in lunghi filamenti o in brevi tratti nervosamente giustapposti, creano una superficie tattile e straordinariamente ricca di colori: il blu intenso e il rosso vermiglio per il cielo; il blu oltremare e il rosso scuro per l’abito; il giallo, l’ocra e il bianco per l’erba, la pietra o il ramo. La figura scultorea della pastorella risulta perfettamente armonizzata con la natura che la circonda. Si tratta di Barbara Uffer, detta Baba, la modella del periodo di Savognino, una giovane domestica che Segantini vedeva come incarnazione della tipica bellezza montanara. Il messaggio simbolico che dà senso al dipinto non è assolutamente legato all’iconografia sociale, allude bensì alla rassegnazione e accettazione umana nei confronti delle leggi che governano la natura, che accomuna la solitudine esistenziale della ragazza a quella delle pecore che brucano e degli uccelli nel cielo.
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L’angelo della vita
1894
olio su tela; 276 x 217
Milano, Galleria d’arte modernaIn quest’opera Segantini dimostra di aderire pienamente al simbolismo per il contenuto allegorico e universale del tema e per l’estetica decorativa liberty, caratterizzata da un linearismo leggero e arabescato, ispirato alle stampe giapponesi. Il naturalismo della scena della maternità è solo apparente: in realtà, la posa della madre risulta scomoda e artificiosa e il bambino di aspetto irreale ed evanescente. Questo manierismo figurativo contribuisce al carattere fantastico della visione, accentuato anche dal modo grafico di raffigurare il cielo e la betulla, il cui tronco tortuoso e serpentinato sembra assecondare una forma viscerale, non certo naturalistica. Lo sfondo è il lago di Silz, in Engadina, dove, proprio nel 1894, Segantini si era trasferito insieme alla famiglia. La particolare iconografia dell’opera sembra nata dalla fusione del motivo della Vergine in Maestà con quello giudaico-cristiano dell’Albero della vita, triplice simbolo del sapere, del male e della morte, che si identifica anche con l’Albero di Jesse (che preannuncia la passione di Cristo). Dell’opera esiste anche una seconda versione a olio su carta commissionata dal medesimo collezionista e conservata a Budapest.
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Le cattive madri
1894
olio su tela; 120 x 225
Vienna, Österreichische Galerie BelvedereLe “cattive madri” sono quelle che hanno rinunciato al ruolo materno e perciò vengono punite e tormentate fino alla redenzione finale offerta dai loro stessi bambini “mai nati” e immaginati come nascosti sotto la terra arida e ghiacciata. Il tema nasce da un testo in versi attribuito a Pahghiavali, un presunto anacoreta indiano buddista in realtà mai esistito, che il famoso librettista Luigi Illica, a suo dire, avrebbe tradotto dal sanscrito, ma che, in realtà, ha scritto di persona. La maternità identificata nella natura stessa, propagatrice della vita, era uno dei temi centrali del simbolismo internazionale e del decadentismo italiano, da Pascoli a D’Annunzio, legata alla misoginia d’ispirazione giudaico-cristiana, tipica degli ultimi decenni dell’Ottocento. In questo capolavoro, che fa parte di una serie di quattro opere iniziata nel 1891, vi è illustrato, in sostanza, il mito della redenzione della donna attraverso l’accettazione della maternità, sintetizzato nella sensuale e affascinante figura femminile (che richiama le donne di Max Klinger o del preraffaellita Hunt) che si contorce sui rami dell’albero innalzato verso il cielo, convulsa nella sua sofferenza e con la testina del bimbo attaccata al seno.
L’amore alla fonte della vita
1896Si tratta del dipinto di Segantini in cui è più palese l’influsso preraffaellita, quello, in particolare, della seconda generazione di artisti (l’ultimo Burne-Jones, Rossetti, Watts). La complessità pittorica dell’opera, descritta nei minimi dettagli con un ossessivo “horror vacui”, spiega il suo successo nell’ambiente secessionista tedesco e viennese. Segantini diede dell’opera una descrizione in chiave simbolista, in una lettera a Tumiati dell’11 ottobre del 1896: "[…] rappresenta l’amore giocondo e spensierato della femmina e l’amore pensoso del maschio, allacciati assieme dall’impulso naturale della giovinezza e della primavera. La stradicciola sulla quale avanzano è stretta e fiancheggiata da rododendri in fiore, essi sono in bianco vestiti (figurazione pittorica dei gigli). Amore eterno dicono i rossi rododendri, eterna speranza rispondono i zembri sempre verdi. Un angiolo, un mistico angiolo sospettoso, stende la grande ala sulla misteriosa fonte della vita. L’acqua viva scaturisce dalla viva roccia, entrambi simboli dell’eternità. Il sole inonda la scena, il cielo è azzurro; col bianco, il verde, il rosso usai deliziare il mio occhio in soavi armoniche cadenze: nei verdi in special modo questo intesi significare…".
La vita
1896-1899Le tre scene del cosiddetto Trittico dell’Engadina (o Trittico della vita) sono un’esemplificazione allegorica di un concetto simbolista, tipico del gusto “fin de siècle”. L’ambiziosa trilogia nasce da un recupero del Panorama dell’Engadina, un progetto destinato all’Esposizione universale parigina del 1900, mai realizzato per i suoi eccessivi costi. I titoli (La vita, La morte, La natura) non furono decisi da Segantini, ma potrebbero essere stati suggeriti da un parallelo deliberato o inconscio con il dipinto di Paul Gauguin Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897). In La vita Segantini voleva riflettere un certo dinamismo delle figure e la "vita di tutte le cose che ha radici nel cuore della terra" è sintetizzata nella figura della madre con il bambino in trono, sulla radice del pino, ma anche dalla varietà di atteggiamenti di animali e individui colti nella vastità del paesaggio crepuscolare, all’inizio della primavera. Lo splendore del sole rosato illumina la sommità della catena montuosa, alle spalle di Pian Lutero. La pennellata, ricca e quasi tattile, descrive l’essenza generale della natura, al di là di qualsiasi precisione descrittiva.
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La raffigurazione della primavera (Primavera sulle Alpi)
1897
olio su tela; 116 x 227
Collezione privata - Private collectionIl grande dipinto, commissionato a Segantini nel 1897 da un certo Rosenthal, pittore e collezionista tedesco, sintetizza un’idea panteistica della vita, in cui la natura è la protagonista dominante entro cui agisce il transitorio operato umano, qui rappresentato dalla donna che stenta a dominare l’irruenza dei cavalli. Il paesaggio a veduta panoramica, che potrebbe sembrare uno spettacolare e ammiccante ricordo alpino, rappresenta la zona di Pian Lutero, alle spalle del villaggio di Soglio, dove Segantini era solito trascorrere gli inverni. Il disegno quasi astratto delle nuvole bianche conferisce alla veduta un senso di infinito e di profondità irreale. Lo stesso Segantini parlò, a proposito di questo quadro, di "simbolismo naturalistico". La donna senza età con i cavalli e il vecchio che semina nell’angolo sinistro dello sfondo (memore del Seminator di Millet) non sono figure allegoriche, ma prendono parte al generale risveglio della natura, espresso dall’armonia dei colori e della luce cristallina del mezzogiorno.
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La natura
1897-1899
olio su tela; 235 x 403
St. Moritz, Museo SegantiniNel famoso Trittico dell’Engadina, la vita è evocata da una natività, la morte da un funerale contadino in un paesaggio d’inverno, mentre La natura (parte centrale del trittico) è rappresentata dal lento e malinconico finire di una giornata di pastorizia, alla luce del tramonto. L’iconografia di questo dipinto sembra la combinazione di due diversi temi già trattati da Segantini: Le due madri e il Ritorno all’ovile, come simbolo di rassegnazione e di passività degli uomini e degli animali verso la vita. Il paesaggio è quello ripreso dal Picco Morterash, col villaggio di Silvaplana e il lago della vallata sottostante. E’ qui, sulle cime dello Schalfeberg, a 4880 metri, che Segantini incontrò la morte, mentre lavorava a questa tela. Il dipinto non è finito, ma la potenza ossessiva della composizione non è per questo minore.
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La morte
1898-1899
olio su tela; 190 x 322
St. Moritz, Museo SegantiTra le tele del Trittico dell’Engadina è l’unica che non presenta una luce crepuscolare o serale. E’ mezzogiorno, infatti, nello scenario innevato del Maloja, il corteo funebre sta aspettando il corpo della ragazza, avvolto nel lenzuolo bianco e anche il paesaggio, nel suo carattere desolato e invernale, trasmette la tragedia della morte. Il nero e il turchese delle vesti delle donne spiccano contro il bianco intenso e abbagliante della neve, mentre la luce cristallina del mattino si diffonde uniformemente su tutta la scena, creando una sensazione di tranquillità e pacatezza. L’unica nota realmente drammatica potrebbe essere quella della nuvola dalla strana forma che assorbe metà del cielo e incombe sulla cima della montagna. Essa suggerisce l’oppressione della natura sul destino umano, introducendo nell’immaginazione dell’osservatore un senso di terrore. Il primo piano con la slitta e il cavallo è rimasto incompiuto.