Gauguin. Racconti dal paradiso
Il Mudec di Milano, nonostante le difficoltà per la sua apertura nell’ex area Ansaldo, è uno spazio accogliente e funzionale, ricco di opportunità culturali ancora in parte da sfruttare e ampliare, ma già ben organizzato nei vari servizi di accoglienza. In questi giorni che seguono l’inaugurazione ufficiale, si respira un’atmosfera positiva. Gli spazi sono ariosi, e piacciono la cupola opalina, lo scalone e le curvature concepite dall’architetto britannico David Chipperfield, nonostante le polemiche degli ultimi mesi. Ma noi siamo qui per rendere conto della mostra su Gauguin inaugurata insieme a quella su Barbie e a quella su Anni e Josef Albers, pionieri del modernismo e collezionisti di arte precolombiana. Intitolata A beautiful confluence, questa raffinata rassegna sui designer e artisti tedeschi (dal 1933 vissuti negli Stati Uniti) è da non perdere, anche perché opportunamente comunicante con le sale della spettacolare “selezione” del patrimonio etnografico del Museo delle Culture. Dispiace dunque dover segnalare la delusione (condivisa da molti spettatori interpellati) per la mostra su Gauguin, che prometteva molto (il materiale documentario su manufatti e luoghi è del tutto assente), e non solo per essere organizzata con la Gliptoteket di Copenaghen, città che conserva importanti opere (anche ceramiche e sculture) dell’artista francese morto alle isole Marchesi nel 1903. La moglie “occidentale” di Gauguin, Mette, era danese, e quando lui abbandonò Parigi per la Polinesia, la famiglia visse, non senza difficoltà, in Danimarca. Gauguin è di richiamo internazionale, e solo negli ultimi anni è stato del tutto meritato il successo delle mostre di Parigi (2003), Roma (2007), Londra (2010), Copenaghen (2011), Madrid (2012), Basilea (2015). La bontà e utilità di un’esposizione, ci pare, parte non tanto dalla quantità o qualità delle opere ma dalla coerenza e chiarezza del percorso. Cosa che non si può dire, almeno per il momento, dell’esposizione milanese, che vanta anche pezzi notevoli (fra i quali ceramiche ignote al grande pubblico). Ciò che in primo luogo sconcerta è l’allestimento “effetto notte”, dove dipinti, sculture, disegni illuminati da faretti, non produce i risultati sperati. Si vaga nella speranza di riuscire a leggere qualcosa delle dida e dei rari pannelli esplicativi (fin troppo ripetitivi sul concetto variegato e complesso di “primitivo”): i più previdenti hanno una torcia, ma anche i ventenni volentieri ricorrerebbero agli occhiali (talvolta proprio non bastano). E poi irrita la caccia al tesoro: i cartellini delle didascalie sono sistemati, sempre al buio, troppo in basso o troppo in alto, e perfino sadicamente nascosti in pertugi non accessibili ai disabili né a chi sia sovrappeso. Chi non noleggia l’audioguida o sia uno studioso appare incredulo, e più di una volta ci siamo trovati a far da cicerone. Discutibile poi il filmato dov’è quasi inesistente la corrispondenza fra gli scritti di Gauguin recitati dal pur bravo Filippo Timi e le immagini ridotte a frammenti ingranditi delle opere (senza alcuna utilità didascalica). È vero, Gauguin fa uso consapevole di varietà di fonti, ma non si può pretendere che tutti sappiano cos’è un cavaliere nordafricano “alla Delacroix”, o avere in mente la pur celebre onda di Hokusai, citata in un raro dipinto di collezione privata. E che dire della Suite Volpini? Vogliamo raccontare meglio la storia delle tavole esposte? e possiamo spiegare in che cosa consiste l’intervento di Gauguin nel pomolo di legno col cesto di frutta? E vogliamo metterla, almeno in catalogo, se proprio non la si vuole esporre, la fotografia di Spitz del samoano alla fonte, dalla quale Gauguin trasse le tante versioni dipinte e scolpite di Pape Moe? E qualche materiale documentario sui luoghi in cui ha vissuto? Qualche opportuna spiegazione in più, senza che si debba forzatamente ricorrere all’audioguida, può risolvere molti problemi. I visitatori, Gauguin e le opere esposte lo meritano.