Nell’intimità del luogo, guidata dalla luce, svelo l’identità
Teatralità. Architetture per la meraviglia. Intervista a Patrizia Mussa
Luoghi di incontro, stupore, emozione, attesa, i teatri, in Italia, attraversano tutte le epoche, a partire dal V secolo a.C. con il teatro greco di Siracusa fino ad arrivare ai giorni nostri con le architetture di Renzo Piano come l’Auditorium Parco della Musica (Roma) e l’Auditorium del Parco (L’Aquila). Spazi creati dall’uomo dove lo spettacolo inizia già nel momento in cui varchiamo la soglia, quando il nostro occhio è rapito dalla bellezza, la nostra immaginazione fluisce e la nostra percezione si stacca dal reale per entrare in una dimensione che apre nuove visioni. Spazi dove ognuno può mettersi in profondo ascolto per cogliere l’intangibile, per esplorare parti di sé, per vivere un’esperienza formativa e, chissà, forse anche trasformativa.
Spazi cari alla fotografa Patrizia Mussa, laureata in Filosofia, specializzata in Antropologia culturale alla Sorbonne, protagonista di un progetto, in tutta la penisola, dedicato ai teatri e alla teatralità, nel quale l’artista, guidata dal suo amore per la luce, è attratta da cromie tenui, trasparenti e da atmosfere sognanti. Immagini poetiche, immerse nel vuoto, prive di figure umane, dove Mussa prima afferra col suo obiettivo la veduta d’insieme poi interviene sulla stampa con matite colorate. Un modo per tornare sul luogo, per dare voce, con la sua manualità, leggera e gentile, alla memoria che di quel luogo conserva.
L’abbiamo intervistata in occasione della mostra Teatralità. Architetture per la meraviglia (Palermo, Villa Zito, fino all’8 settembre, catalogo Silvana Editoriale & Studio Livio), a cura di Antonio Calbi, non solo per approfondire il progetto espositivo ma anche per scoprire il suo lavoro di ricerca e studio, integrazione e sintesi di discipline e linguaggi diversi.
La fotografia di architettura, di interni e di paesaggio sono i principali campi della sua attività professionale e di ricerca. C'è una connessione tra questi ambiti e la sua attenzione nei confronti del teatro? Nel teatro il suo sguardo ha trovato una sorta di "distillato visivo"? Oppure il teatro è uno spazio di esperienza totalmente nuovo?
Il fascino per i teatri deriva dalla mia passione per gli spazi, per l’architettura. Le architetture dei teatri italiani sono delle architetture completamente diverse. Noi abbiamo la fortuna di avere i teatri più antichi esistenti al mondo in buono stato, per esempio il Teatro Olimpico di Palladio, il Teatro Olimpico di Sabbioneta (Mantova), il Farnese ecc. Sono architetture che ti incantano, ti lasciano letteralmente senza fiato. Dopodiché è vero che i teatri in Italia sono centinaia e centinaia tra piccoli, grandi, tra quelli in uso e quelli non in uso, totalmente differenti ma con caratteristiche che dall’Ottocento in poi si ripetono anche se le sorprese non mancano. Recentemente ho fotografato a Palermo il Politeama, un teatro unico nel suo genere. Diciamo, quindi, che sicuramente ritrovo nel teatro la mia propensione, il mio amore sia per l’architettura sia per gli spazi interni. Come fotografa professionista ho lavorato con varie riviste del settore, sono stata “contributor” fissa di “AD France” per la quale ho fotografato non solo bellissime architetture moderne e contemporanee ma anche regge e musei. Così proprio tra le opere esposte nella mostra in corso a Palermo, Teatralità. Architetture per la meraviglia, ci sono oltre a teatri noti e meno noti, più antichi e più vicini a noi, luoghi come la reggia di Caserta e la reggia di Venaria, emblemi di teatralità allo stato puro. Teatralità, termine chiave scelto per questo progetto, inaugurato al Palazzo reale di Milano lo scorso dicembre, ora a Palermo appunto, e che proseguirà poi le sue tappe espositive a Roma, a Vicenza e a Parigi nel 2025. Teatralità delle meraviglie italiane, uniche e forse in diversi casi non così famose. Per esempio, la reggia di Caserta è celebre però al suo interno c’è il Teatro di corte che non è sempre visitabile. Insieme agli spazi interni, altro mio campo di interesse, e sui cui ho sempre lavorato, è rappresentato dagli ambienti esterni dove ho approfondito l’esperienza con la luce naturale. Ho adorato fotografare il teatro e il tempio di Segesta, scegliendo l’alba come momento per me più idoneo perché intriso di una luce particolare.
Il focus è quindi la teatralità, concetto più ampio del teatro in senso stretto…
La fotografia dei teatri è nata per un incarico ben preciso che ebbi moltissimi anni fa dalla Regione Piemonte. Mi fu commissionato di fotografare oltre al Teatro Carignano una serie di altri teatri del territorio regionale. Questo progetto mi ha affascinato, da qui è nata poi una pubblicazione importante. Successivamente mi sono dedicata ad altri progetti. Poi, grazie alla partecipazione, all’entusiasmo nei confronti del mio lavoro da parte di Antonio Calbi, uomo di teatro nel senso più ampio del termine, oggi direttore dell’Istituto italiano di cultura di Parigi, è nato il progetto sui teatri in Italia, il Grand Tour in Italia, da Nord a Sud. È un progetto “in fieri”, che si sta sviluppando. Nella mostra in corso a Villa Zito, per esempio, ci sono due sale dedicate alla Sicilia dove troviamo fotografie dei teatri storici di Palermo e anche il teatro del parco di Segesta che per noi è un po’ il punto di partenza di tutto il progetto.
Quali sono gli aspetti salienti del suo percorso professionale ma anche di studio e ricerca?
La fotografia ha sempre fatto parte della mia vita. Da giovanissima mi sono dedicata al settore sportivo, poi a quello del reportage geografico, legato ai miei studi di antropologia. A inizio anni Ottanta ho lavorato nella pubblicità a Milano. La mia scuola non è stata, come si intende oggi, una scuola di fotografia ma quella ricevuta dai grandi direttori della fotografia con cui ho avuto la fortuna e l’opportunità di collaborare per diversi anni. Ho lavorato con la casa di produzione Film Go per la quale ricoprivo il ruolo di “executive producer”. Un’esperienza che mi ha permesso di imparare quello che mai avrei imparato in una scuola. Ci sono degli accorgimenti che si apprendono solo sul campo. Da qui è iniziata la mia passione per l’immagine. Dal 1985, quando è nata mia figlia, ho deciso di trasferirmi a Torino e soprattutto di sospendere un po’ i viaggi che mi portavano in giro per il mondo. Ho iniziato a lavorare nello studio Livio come responsabile della sezione fotografica e a dedicarmi alla fotografia di architettura. Ma è Parigi, dove ho avuto un importante incarico da Jean-Luc Monterosso, allora storico direttore della Maison Européenne de la photo, la città nella quale la mia ricerca ha avuto un salto di qualità. Un fotografo che mi ha segnata profondamente e che ho avuto modo di incontrare è Luigi Ghirri. Stampavo le mie fotografie nel suo laboratorio per cui ero spesso a Modena, parlavo con il suo stampatore. Sono entrata in contatto molto da vicino con il suo lavoro. E lì ho capito che era necessario avere una propria strada, scegliere, portare l’interlocutore a osservare, a guardare. L’evoluzione di tutto questo è stato per molti aspetti il progetto Warless Theatres legato a luoghi che ho fotografato molti anni fa quando ancora erano accessibili cioè Afghanistan, Yemen, Etiopia. Così ho deciso di creare un progetto in ricordo di quei luoghi. E volendo ricreare una mia visione, mossa dall’esigenza di realizzare atmosfere e cromie personali, dopo la scelta delle immagini ho iniziato a intervenire con il colore sulle stampe perché dovevo vedere com’erano quei luoghi nella mia memoria. Da allora, non riesco più a pensare a una mia stampa dove non intervengo con la mia manualità. Mi piace ripercorrere il luogo, rivederlo, ritornarci.
Il progetto Warless Theatres rappresenta dunque l’inizio di un percorso verso una fotografia che ha una precisa identità, una fotografia autoriale?
Sì, in effetti lo sento così, ne ho la riprova da parte di critici e curatori. Il progetto Warless Theatres, tra l’altro, è stato selezionato ed esposto per la Biennale du Monde Arabe Contemporaine a Parigi. E da lì è nata la mia collaborazione con Galerie XII, che mi rappresenta in Francia.
Fotografia e pittura, gli aspetti caratterizzanti la sua professione, filosofia e antropologia culturale, le discipline della sua formazione. Ritiene che tra le une e le altre ci siano relazioni, punti di contatto?
Sì. Credo che un certo tipo di fotografia autoriale rispecchi la cultura, il pensiero, banalmente la sensibilità di un autore. L’antropologia mi ha affascinato tantissimo, a vent’anni avrei voluto diventare Margaret Mead, poi non ho trovato la strada per partire per le Isole Samoa…! Però è una formazione di cui vado fiera, sono felice di averla fatta, è una grande risorsa. La mia fotografia non è una fotografia dell’istante ma è una fotografia dei tempi lunghi, contemplata. Una fotografia che non conosce fretta. Spesso mi ritrovo a lavorare in spazi dove sono completamente da sola. E questo per me è una grande gioia. La fretta non esiste in nessuna fase del mio lavoro. È una fotografia che richiede tempo. Un tempo lungo che considero positivo. Anche il fatto di intervenire con le matite, i pastelli sulla stampa fa sì che possa vedere dei particolari che prima non avevo visto. Ogni volta in qualche modo c’è uno stupore, una scoperta.
Qual è il suo intento in questo progetto di ricerca sui teatri?
Intanto i teatri sono spazi affascinanti, luoghi attraversati dalla storia, dove si avverte che ci sono tracce di tempi lontani. Tutte le volte che entro in un teatro, soprattutto in alcuni teatri, rimango incantata, ho dei momenti in cui mi si ferma il respiro. Poi ho la fortuna di entrare nei teatri per realizzare le mie fotografie quando non c’è nessuno. La Scala di Milano, per esempio, l’ho fotografata da mezzanotte all’alba. Entrare nei teatri quando non c’è nessuno è un privilegio e un’esperienza emozionante. Si avverte da una parte un senso di impotenza, dall’altra un senso di beatitudine. Poi c’è anche una sorta di melanconia per questa grandiosità degli spazi. Quando entro nei teatri chiedo che siano spenti tutti i proiettori e le luci non necessarie per ritrovarmi nell’intimità del luogo e svelare la sua identità. Quindi faccio più buio possibile dopodiché intervengo illuminando con la mia macchina fotografica e i tempi lunghi. Non uso mai luci artificiali. Cerco sempre di usare la luce del luogo. Lo spazio teatrale diventa così uno spazio semibuio, completamente diverso da quello che vedono gli spettatori, uno spazio vuoto che in qualche modo mi piace svelare. E quindi illumino con i miei “tempi lunghi” perché è l’unico modo per poter leggere i dettagli, l’identità del teatro.
Nel momento in cui fa lo scatto, ha già in mente quale intervento farà sulla stampa?
Per quanto riguarda gli interni dei teatri non penso più di tanto al momento dell’intervento successivo su stampa. È più importante che rimanga concentrata sull’atmosfera generale, i dettagli vengono un po’ dopo. Nel senso che con la stampa sotto gli occhi riesco a mettere in evidenza determinate luci, ad annullare delle ombre e a evidenziare dei colori.
Dalle sue opere emerge cura dello spazio, geometria, ma anche poesia, trasparenza, delicatezza, sospensione. Sembra di assistere a un ulteriore messa a fuoco per arrivare a un'essenza, a un nucleo originario. Come se si passasse da un obiettivo fotografico a un obiettivo dell'anima. È così?
Fotografo come se dovessi fare un ritratto personale ai vari spazi. Intervengo su ogni stampa. Ogni stampa è a sé e ha una sua unicità. Poi è ovvio che le stampe sono simili però possono avere delle differenze. L’intervento sulle stampe non è una cosa ripetitiva.
Come ha scritto Giovanna Calvenzi nel catalogo della mostra servirebbe un neologismo per definire il suo lavoro. Che ne pensa? Per lei è importante dare una definizione del suo lavoro?
Credo non sia necessario trovare una definizione. Le mie sono fotografie con interventi di coloritura a mano. Che poi sono piccoli interventi. Non intervengo su tutta l’immagine, non voglio stravolgere quello che è la mia ripresa.
Tra tutti i teatri ce n'è stato uno o più di uno che le ha regalato una particolare esperienza?
Sicuramente il luogo che più mi ha incantato e che mi ha lasciato senza fiato è stato il Teatro Olimpico di Palladio a Vicenza per il mio amore verso l’artista, per la sacralità del luogo. Se pensiamo che una scenografia creata nel Seicento è rimasta intatta fino a oggi… Un altro teatro che mi ha particolarmente colpito è il Teatro Farnese di Parma. Poi il Teatro Olimpico di Sabbioneta. E ancora, forse per il mio amore per Venezia, per la storia travagliata che ha avuto c’è anche la Fenice perché pur essendo un teatro molto ricco, e per questo non proprio nelle mie corde, mi ha conquistato. Forse perché ho passato lì tutta la notte.
Come proseguirà il progetto sui teatri?
Quando la mostra sarà a Vicenza vorrei dedicare delle immagini inedite alle architetture palladiane. Il teatro sì, ma cerco di andare un po’ oltre. Per esempio, quando la mostra sarà a Parigi, ho promesso che fotograferò l’Istituto italiano di cultura. Ogni volta, mi piace integrare con nuove immagini.
Fotografa sempre spazi senza la presenza umana?
In teoria, sì. Per me non è necessaria la presenza umana. In questi luoghi, comunque, la presenza umana c’è, si sente. Preferisco lavorare nello spazio vuoto che mi proietta in un tempo indefinito, o meglio in un luogo che diventa senza tempo.
Circa gli aspetti tecnici, la scelta di non lavorare con la luce artificiale da cosa deriva?
La luce artificiale stravolge lo spazio e crea delle ombre fittizie. Mi piace creare la mia luce. Quando fotografo l’interno di uno spazio, mi piace approfondire durante il sopralluogo come gira il sole. Per cui aspetto il sole, vado a cercarlo nell’attesa dei momenti in cui si creano luci e controluce. Apprezzo molto l’invasione della luce in uno spazio. Amo inseguire la luce, vedere “cosa fa” in un luogo e scegliere quella che più mi piace. La luce artificiale altera l’identità di un luogo. Diverso è l’impatto che la luce naturale ha in un luogo: luce che passa, entra, lo attraversa senza snaturare la sua identità. La mia scelta rispetto alla luce è una scelta di rispetto nei confronti del luogo. Credo che ogni luogo abbia una sua luce e quindi voglio mantenere quella luce. Fotografando la reggia di Caserta mi sono ritrovata nel criptoportico di Diana, completamente buio, che però sono riuscita a svelare e a illuminare con un’immagine realizzata sul cavalletto, aprendo il mio obiettivo e dando luce a quel luogo. In questo senso, mi piace trovare e svelare la luce di un luogo. Mai avrei fotografato quel luogo o qualsiasi altro con un flash o con faretti portatili. È proprio una mia fermezza quella di dire no alla luce artificiale. La luce deve essere naturale e mi piace così.
Per quanto riguarda il suo intervento sulla stampa, ho l’impressione che lei agisca in punta di piedi. È così?
Sì. Innanzitutto, perché è carta, e quindi devo intervenire con la massima delicatezza. Per fare questo devo essere distesa, serena e tranquilla. poi spesso devo allontanarmi, distaccarmi. Mi chiudo in una stanza con una musica di sottofondo. E molto spesso ritorno sulle mie stampe. Lavoro un po’, smetto e poi riprendo. Non è un lavoro che viene fatto in una volta sola. Mi piace iniziare, sospendere, riprendere.
E in quelle pause il suo pensiero va a quella stampa che ha lasciato in sospeso?
No, posso completamente dedicarmi ad altro. In quelle pause mi dimentico la stampa. E quando ritorno a lavorarci sopra, magari la vedo anche in altro modo.
Giovanna Ferri