Queer di Luca Guadagnino. La messa in scena di uno 007 proustiano.
Introduzione, il lettore.
Immaginate di avere 17 anni sulla soglia degli anni Novanta, alla radio ci sono i Nirvana, non sono ancora famosi i RadioHead. Vi imbattete in un libro la cui lettura vi rivela una parte di voi stessi che ha a che fare con i desideri più intimi, le paure più nascoste generate da quei desideri, e racconta il coraggio di affrontarle in un viaggio esotico e tropicale, al limite del sé, sia geografico che psichico, sociale e culturale. Il lettore reale è Luca Guadagnino.
- Il libro
Queer, scritto da William Burroughs nel 1951, ma pubblicato solo nel 1985 e tradotto in Italia nel 1987, è un romanzo autobiografico breve e racconta la fuga di Lee, nome di penna di William Burroughs, nei bassifondi di città del Messico, e poi di un viaggio a Quito e Pejo, nel cuore della foresta amazzonica in Ecuador, alla ricerca di una pianta i cui estratti sono in grado di sviluppare la telepatia, e sperimentati per velocizzare le linee di comando sia dagli eserciti americani che russi, secondo le informazioni a disposizione di Lee. Frequentando i bassifondi di Città del Messico, Lee incontra un giovane uomo, Allerton. Egli incarna tutto quello che Lee ami in una persona, modi, voce, fisicità elegante e europea, virilità, intelligenza. Non riesce a fare altro che girargli intorno per cercare un contatto fisico con lui. E il giovane, benché si ritragga e sia spaventato, o proprio per quello, decide di esplorare questa attrazione invece di fuggire, finendo per ricambiarla con generosità. La relazione fra i due non dipende da altro che da questo desiderio di contatto con se stessi, attraverso l’altro, e tutto il resto è un mezzo di fuga dalla realtà squallida del contesto. Eroina e alcol non sono il fine ma il mezzo di questa liberazione. Burroughs in Naked Lunch descriverà con molta ironia, drammaticità e distacco queste dipendenze, di cui si libera in seguito per poter scrivere.
- L’autore, William Burroughs
Burroughs, nel periodo descritto dal libro. è un personaggio pubblico, noto e con un milieu molto preciso. Le sue opere hanno tutte uno sfondo politico e un’estetica perfettamente coerente. Nel suo appartamento newyorkese del Greenwich Village, si riunivano Allen Ginsberg, Jack Kerouac, insieme con giornalisti, musicisti e artisti di quella generazione, non lontano dalle sedi universitarie affollate di professori sfuggiti allo sterminio, come Hannah Arendt. In quel distretto sono nati l’espressionismo astratto, l’arte concettuale, gran parte della ricerca della musica di avanguardia, gli esperimenti di Laurie Anderson e il rock di Lou Reed, le performance di John Lennon e Yoko Ono raccontate da un altro documentario in mostra, One to One, ma questa è un’altra storia.
William/Lee fra il 1949 e il 1954 vive una vita errante fra Europa e Sud America, dove uccide accidentalmente Joan Vollmer durante una festa, per averle sparato cercando di colpire un bicchiere sulla sua testa, in una simulazione giocosa del Guglielmo Tell.
3. Il film
La messa in scena elabora questi materiali, l’identificazione giovanile del regista con Burroughs, la duplicità fra l’autore del libro e il suo alter ego del romanzo, in un caleidoscopio psichedelico in cui le musiche e le ambientazioni vagano fra il grunge degli anni novanta, con un discronico “Come as you are”, dei Nirvana, moda maschile e il rock psichedelico degli anni sessanta, rielaborati e resi attuali,
I vestiti non sono secondari, anzi molto spesso protagonisti sono il color crema del completo in lino di Lee, le giacche e i pantaloni in tonalità fredde da europeo del giovane protagonista, i blu e i gialli ocra del paesaggio, che sono una allusione alle origini ebraiche del personaggio, ma anche un simbolo di unione fra questo blu del cielo tropicale e il giallo della terra del deserto. La periferia rumorosa e i bassifondi scompaiono nel cibo bene illuminato e negli abiti che fanno solo pieghe leggere nonostante fughe, lunghe passeggiate al sole messicano, e abbracci nei bar dove tutto sembra cadere nel libro ma nel film gli interni potrebbero fare invidia a quelli di Wes Anderson nel bar della Fondazione Prada a Milano. Così come la foresta diventa un fitto giardino.
I costumi sono centrali anche nella scena erotica culminante, che è estremamente pudica, in cui i due amanti si fondono l’uno nell’altro, in un essere circondato da una sola pelle, fusi grazie a un vestito elastico che simula la pelle umana e l’abbraccio totalizzante. Daniel Craig è dunque il mezzo perfetto che incarna qualsiasi persona gli sia intorno, per un effetto di telepatia che non è affatto disincarnato. Meglio lo è nella misura in cui ricade nel corpo dell’altro, diventando uno 007 proustiano e finendo per essere l’alter ego di Luca Guadagnino e per estensione dello spettatore. La messa in scena è una reinterpretazione fiabesca, in soggettiva e discorso libero indiretto. dei film polizieschi americani e inglesi di avanguardia degli anni Sessanta, che mescolavano spesso amore e morte, fughe e nascondimenti, e di cui i film di 007 sono stati il culmine popolare e di successo.
4. Epilogo veneziano
Imperdibile il siparietto della conferenza stampa, in cui lo 007 proustiano si svela per quello che è, con Luca Guadagnino che si difende da una obiezione poco acuta sull’aura virile di Daniel Craig messa a repentaglio da questa interpretazione e da una domanda sulle dipendenze. Per rispondere, riprendendo quasi alla lettera una frase di William Burroughs sulla propria vita dopo la mezza età, il regista dice, sono un signore di mezza età che non fuma, non beve, va a letto presto la sera, ha perso 17 chili con la dieta, i cui amanti in tutta la vita si possono contare sulle dita. Nel frattempo, Luca Guadagnino fa anche il direttore artistico di Homo Faber, mostra mercato di arti applicate e artigianato, a San Giorgio in Fondazione Cini e nel resto di Venezia in botteghe artigiane, un viaggio nell’esperienza della manifattura, del lusso e delle arti applicate, dagli abiti alla tappezzeria, passando per il cibo, la produzione di carta artigianale, la lavorazione della pelle, dei tessuti, in una celebrazione del ben fatto che fa pensare al saggio di Alessandro Michele e Emanuele Coccia, La Vita delle Forme, ma Luca Guadagnino qui rivendica il suo ruolo di filosofo del costume, della moda e in definitiva dell’opera d’arte totale ai tempi dell’intelligenza artificiale e di una nuova minaccia nucleare, includendo la città di Venezia in un tour alla ricerca del viaggio delle forme come sintesi della vita.
Guido Pace