Tra grazia e perdizione. Alla Galleria Mucciaccia una prima nazionale di Jan Fabre
Jan Fabre - Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies
Un fascino perturbante e ambiguo caratterizza la ricerca estetica di Jan Fabre. Idolatrato da buona parte della critica e corteggiato da alcuni dei più grandi musei internazionali, l'artista di Anversa, di un paio di anni più vecchio del “cattivo ragazzo” Maurizio Cattelan, è soggetto esemplare per raccontare la temperie post-concettuale che segue l’esplosione della Young British Art.
Fino al 1 marzo, Galleria Mucciaccia presenta a Roma una prima nazionale, un progetto che unisce i due più recenti capitoli dell'epopea immaginifica di Fabre: Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) e Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre). Nulla è come appare e tutto è come sembra. Attraverso vari livelli di lettura, che pongono inaspettati contrasti morali ed estetici, l’artista coinvolge il pubblico mediante un colto oscillare tra dolcezza e dolore. Songs of the Canaries è una installazione dove l’eleganza del marmo di carrara, utilizzato per raffigurare canarini appollaiati in cima a cervelli umani, intenti nella contemplazione dei meccanismi più intimi del pensiero, si fa attraente viatico per narrare la poco nota vicenda di Robert Stroud, efferato, duplice assassino che grazie alla ricerca ornitologica in carcere ha potuto riconquistare la libertà.
Songs of the Gypsies utilizza un analogo meccanismo di comunicazione, potenziato dal coinvolgimento diretto della biografia dell'artista. L’installazione è infatti concentrata intorno a tre imponenti sculture che rappresentano, fuori scala, suo figlio all'età di cinque mesi e mezzo, recante sul corpo uno spartito musicale dipinto. Il nome del primogenito, Django Gennaro, fa riferimento a Django Reinhardt, virtuoso musicista gypsy jazz belga. Qui il cortocircuito di ambigua lettura: Reinhardt divenne un grande chitarrista nonostante una grave menomazione alla mano sinistra.
Tra grazia e perdizione, la mostra romana pone sotto una luce cristallina tutta la complessità di un pensiero non lineare, dove il bene e il male non possono essere identificati nettamente, dove le storie personali si fanno mitiche, entrando all’interno di una morale precristiana, dove corpo e mente sono nefesh, visioni parziali di una unità complessa. Tra grazia e perdizione, il fortunato spettatore può trovare negli spazi della galleria tutta la ricerca estetica di Jan Fabre, nella sua totale impossibilità di definizione.
Marco Roberto Marelli