Giovanni Boldini: biografia
Nato a Ferrara nel 1842, Giovanni Boldini si accosta alla pittura grazie al padre Antonio, valido pittore purista attratto dai maestri del Quattrocento. Gli anni della sua formazione saranno dedicati, infatti, alla riproduzione delle opere rinascimentali conservate nei musei ferraresi e alla frequentazione dello studio dei fratelli Domenico e Girolamo Domenichini, pittori e decoratori. Nel 1858 esegue un Autoritratto giovanile e alcuni ritratti di gentildonne e notabili ferraresi, iniziando così ad affrontare quel genere artistico che non avrebbe mai abbandonato: il ritratto borghese. Nel 1862, grazie a una piccola eredità ricevuta da uno zio, Boldini si trasferisce a Firenze per frequentare l’Accademia di Belle Arti e diviene amico inseparabile di Michele Gordigiani e Cristiano Banti che lo introdurranno al circolo di artisti che si riuniva al Caffè Michelangelo, ritrovo dei Macchiaioli. Qui Boldini dipinge ritratti e paesaggi e conosce molti esponenti della comunità inglese di Firenze, fra cui i Falconer. Nel 1865 è ospite di Diego Martelli a Castiglioncello e l’anno dopo compie un viaggio a Napoli con l’amico Cristiano Banti, che ritrarrà in quegli stessi anni, contemporaneamente ai suoi figli Alaide Banti e Leonetto Banti (1866). In occasione dell’Esposizione Universale, nel 1867 Boldini si reca per la prima volta a Parigi, dove incontrerà Degas, Manet e Sisley. Di ritorno in Toscana, l’anno successivo inizierà ad affrescare (con scene campestri) la sala da pranzo della villa dei Falconer, detta “La Falconiera”, nella campagna pistoiese, lavoro che, sospeso più volte, si concluderà solo nel 1870. Dopo un breve soggiorno a Londra nel 1870, dove si avvicinerà alla ritrattistica inglese del Settecento, nell’ottobre del 1871 si trasferisce definitivamente a Parigi. Qui dapprima dipinge quadri di genere e di costume di gusto neosettecentesco su commissione di Goupil, uno dei mercanti più alla moda, per il quale dipingono anche De Nittis, Meissonier, Palizzi e Fortuny. In seguito, intorno al 1874, Boldini si dedicherà alle vedute di strade e di piazze parigine ma soprattutto alla ritrattistica, divenendo uno dei pittori prediletti dell’alta società parigina. In quegli stessi anni che vedono a Parigi la consacrazione del movimento impressionista (nel 1874 si terrà la mostra presso lo studio del fotografo Nadar), Boldini offre nei suoi quadri la visione di un mondo diverso, più buio e dinamico. Il suo riferimento francese sarà Degas e la sua pittura degli “interni” piuttosto che quella tipicamente “en plein air”. Boldini, così, negli anni Settanta, abbandona del tutto le vedute urbane all’aperto per immergersi nelle atmosfere affollate dei teatri, delle feste e soprattutto dei caffè, nuovo fulcro di vita contemporanea. L’evoluzione sarà anche di tipo stilistico, nello scurire gradatamente la tavolozza verso i grigi, il marrone e il nero e nel rendere più rapida e sintetica la sua pennellata. Ciò avverrà anche in seguito alle suggestioni ricevute durante un viaggio compiuto nel 1876 in Olanda e in Germania, dove era rimasto particolarmente colpito dalle opere di Frans Hals e da quelle del contemporaneo Adolph Menzel. Nel 1882 dipinge il ritratto del musicista Emanuele Muzio, il quale lo metterà in contatto con Giuseppe Verdi, che poserà per lui nel 1885 durante un momentaneo ritorno in Italia. Completato il ritratto di Verdi nel 1886, l’anno dopo verrà invitato dal grande compositore alla prima dell’Otello alla Scala. Negli anni Novanta, durante i suoi lunghi soggiorni in Italia, prolificano i ritratti di grande formato (di una eleganza originale) e le serate mondane alle prime delle opere. Nel fatidico 1900 Boldini è a Palermo per ritrarre Donna Franca Florio, dipinto che verrà esposto alla Biennale di Venezia nel 1903. Partecipa, poi, all’Esposizione Universale di Parigi con i ritratti di Whistler, dell’Infanta Eulalia di Spagna e altri dipinti. Costantemente presente, e con successo, a vari Salon e mostre internazionali, morirà a Parigi, per una broncopolmonite, l’11 gennaio del 1931. Verrà sepolto nella Certosa a Ferrara.
Giovanni Boldini: le opere
Il pittore Cristiano Banti con canna da passeggio
1865-1866Negli anni Sessanta, a Firenze, Giovanni Boldini stringe amicizia con molti artisti macchiaioli che si riunivano nel famoso Caffè Michelangelo di via Larga, in particolare con Cristiano Banti, collezionista e sensibile artista, più di una volta ritratto da Boldini nella solitaria intimità del suo ambiente domestico o con la sua famiglia. Qui la figura è in piedi, in posizione frontale, e guarda verso lo spettatore in modo sicuro e sfrontato, come se volesse, quasi, sfidare l’immobilismo della fotografia, che, tra l’altro, è sempre stato un mezzo disprezzato da Boldini. L’ambientazione è quella della sua casa, forse una delle due ville di Montorsoli o di Montemurlo, dove Boldini veniva ospitato per estati intere. La parete di fondo accoglie, sulla superficie della carta da parato, quadri e stampe incorniciati e appesi, che ci introducono al cosiddetto problema del “quadro nel quadro”, che Boldini affronterà molte volte come divertito pretesto per citare i suoi stessi dipinti, come nel ritratto di Giuseppe Abbati (1865-1867) dove si intravede alle sue spalle il riconoscibile ritratto ovale di Lilia Monti (1864-1865). La luce fredda e tersa esalta, in particolar modo, i tratti del viso e il chiaro incarnato del Banti, reso con una nitidezza ancora purista. Nella parte inferiore del quadro, invece, la tavolozza sembra scurirsi verso i neri e gli ocra e la pennellata farsi più veloce e sintetica, come nel soprabito appoggiato sulla spalliera della poltrona. La struttura compositiva generale, seppur ancora un po’ statica, è di grande equilibrio e armonia.
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L’amatore delle arti
1865-1866
olio su tela; 32 x 46,8
Roma, Galleria Nazionale d’Arte ModernaNella ritrattistica boldiniana di questi anni, ritroviamo spesso la particolarità della “immersione” totale del soggetto nell’ambiente circostante, da cui non sembra potersi separare, contrariamente alla produzione di fine secolo e inizi Novecento caratterizzata, invece, dall’uniformità grigio azzurra o perlacea degli sfondi. A proposito di questo “amatore di belle arti”, esposto alla Promotrice di Firenze nel 1866, conviene riportare ciò che l’artista-critico Telemaco Signorini scrive nel “Gazzettino delle arti del disegno”, che era allora la rivista di punta (fondata da Diego Martelli): «I ritratti si sono fin qui fatti con una massima sola, cioè dovevano avere un fondo unito il più possibilmente per fare staccare e non disturbare la testa del ritrattato; precetto ridicolo e lo dice il sig. Boldini con i suoi ritratti che hanno per fondo ciò che presenta lo studio, di quadri, stampe e altri oggetti attaccati al muro, senza che per questo la testa del ritrattato ne scapiti per nulla». Il dipinto in questione, compraato direttamente all’esposizione della Promotrice dal Ministero dell’Agricoltura e Commercio che ne risulta ancora proprietario, è giocato proprio su questo rapporto dinamico tra l’interno, il personaggio seduto e i singoli oggetti, descritti da pennellate veloci: un tavolo, due cilindri, un bastone e un giornale. Sulle pareti, compaiono pezzi di quadri che accentuano, tra l’altro, la ripresa di traverso del soggetto, colto in una posa naturale, mentre consulta un album.
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Alaide Banti
1867 circa
olio su tela; 42,5 x 23
Firenze, Galleria Nazionale d’Arte ModernaIl bellissimo ritratto della figlia dell’amico pittore Cristiano Banti ricorda chiaramente quello delle bambine nella Famiglia Bellelli di Degas (1858-1860), dipinto a Firenze ma oggi al Louvre. Non a caso, proprio Cristiano Banti aveva conosciuto nella città toscana l’artista Degas nel 1858 e ricorda, in una lettera a Boldini del 1885, di avere visto il quadro della famiglia Bellelli: “Rammento non troppo bene, come in un sogno, una donna con bambino, e non so che d’altro; rammento dei bianchi, un non so che di abbigliamenti bianchi che mi assomigliava un poco al Vandich”. Il bianco della veste di Alaide si espande, qui, contro la superficie scura dello sfondo, fino a diventare dominante in tutta la scena. La straordinaria struttura cromatica sembra brulicare sulla tela, nella definizione del candore accecante della veste, nel velluto cangiante del divano e nel grigio azzurro della carta da parato. Lo sguardo di Alaide è malinconico, serio, assorto, come quasi a presagire la futura infelicità del suo amore, nato venti anni più tardi, ma corrisposto da Boldini solo per un breve periodo. Amore che alimenterà, però, un’altra numerosa serie di ritratti. Rispetto al modello francese, molto nitido e preciso nella definizione degli spazi e dei dettagli, quest’opera di Boldini entra con più decisione nella modernità della visione “opaca”, mossa e vibrante, sintetizzata in poche pennellate libere e preziose. Compagna di questa tela è l’altra, speculare, che ritrae il figlio maschio del Banti, Leonetto, ugualmente conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze.
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Diego Martelli
1867 circa
olio su tela; 14,7 x 19,7
Firenze, Galleria Nazionale d’Arte ModernaGertrude Stein riconoscerà a Boldini un merito essenziale, quello, cioè, di avere per primo «semplificato la linea e i piani», cosa che risulta facilmente apprezzabile in questo straordinario ritratto di Diego Martelli, ripreso da un punto di vista ribassato che accentua l’essenzialità dell’immagine. Lo scrittore e critico d’arte toscano, sostenitore dei macchiaioli, è colto in una posa anticonvenzionale e quasi ironica, mentre, accovacciato per terra, pesca con disinvoltura qualcosa da una ciotola rossa. L’espressione dei suoi occhi è molto intensa e viene evidenziata per contrasto dalle macchie scure del cappello e del mantello. Sembra sbilanciarsi verso di noi, inclinando leggermente il busto verso l’asse orizzontale delle gambe. La parte posteriore della stanza è spoglia e semplice, le pareti sono nude a eccezione di una tela rivoltata verso il muro. Il telaio ben visibile, però, ha forse la funzione di indicare la direzione semplificata dei piani, secondo la consuetudine costruttiva “in movimento” tipica di Boldini. L’unico punto fermo è la stufa nera e cilindrica, che sembra attrarre verso di sé tutte le diagonali del dipinto. Anche la tavolozza appare notevolmente semplificata, e la pennellata sintetica e abbreviata in uno stratificarsi di “macchie”, vorticose e mosse, mai sospese e formali come quelle di Fattori e dei macchiaioli.
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Le sorelle Lascaraky
1869
olio su tavola; 14 x 22,5
Ferrara, Museo Giovanni BoldiniLe giovanissime sorelle Lascaraky sono colte dal vivace pennello di Boldini nella calda ambientazione del loro salotto altoborghese, dedite ai lavori femminili e comodamente sedute su un divano. L’atteggiamento naturale delle tre figure è accentuato dalla sensazione voyeuristica della veduta “istantanea” e ribassata, dove le gambe del tavolo occupano gran parte della scena. In quegli anni, Boldini, che tra l’altro aveva visitato l’Esposizione universale di Parigi nel 1867, aveva conosciuto molti stranieri altolocati residenti a Firenze, inglesi, soprattutto, come i Falconier per i quali aveva eseguito decorazioni murali nella loro villa nella campagna pistoiese, e russi, come i Lascaraky. La più giovane delle tre sorelle russe, Lola, si era persino innamorata di Boldini, e ciò dimostra la frequenza e la familiarità del pittore con questi ambienti ricchi e internazionali della città toscana. Ormai, Boldini, aveva già fama di ritrattista, genere artistico che privilegiò sempre rispetto alle vedute e agli “esterni” dei macchiaioli toscani con i quali, comunque, era in stretto contatto in quel periodo. In questa tavoletta, pur nella morbidezza dei toni pittorici non ancora “sfatti” e sfrangiati ma piuttosto “a macchia”, le fattezze delle tre figure sono evidenziate con curiosa indagine scrupolosa nelle espressioni dei volti e nella descrizione dei vestiti che le caratterizzano socialmente. Queste, inoltre, formano con l’ambiente circostante un tutt’uno armonico e familiare, che ai nostri occhi forma una sintesi dello spirito di un’epoca.
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Il maestro Muzio sul podio
1882
olio su tela; 25 x 22
Milano, Museo teatrale alla ScalaIl maestro Emanuele Muzio fu colui che mise in contatto Boldini con Giuseppe Verdi, del quale egli eseguì due famosi ritratti, uno a pastello e l’altro a olio. Come dimostra tutta la ritrattistica di questi anni, a partire proprio dal Maestro Muzio, Boldini esegue delle parti “finite” eseguite con minuzia e precisione e altre lasciate in uno stato quasi di “abbozzo”, come si percepisce più chiaramente nel ritratto a pastello di Verdi. La decisiva folgorazione formale e stilistica Boldini l’aveva avuta durante il viaggio in Olanda nel 1876, di fronte alle opere del seicentesco Frans Hals dove tratti di pennello si sovrappongono a una prima stesura scura, grigia o nera, in un impasto veloce ma controllato. Anche nel bellissimo dipinto qui preso in considerazione, possiamo notare come il viso e le mani del Maestro siano resi in sopratono (espediente che usava anche Manet) rispetto al resto della persona, vista da un leggero sottinsù che ne accresce l’importanza nello spazio angusto. Il fondo risulta abbozzato da rapide pennellate grigio scuro, lasciate in evidenza nel loro sottile stratificarsi. Il volto del maestro illumina tutta la scena insieme alla partitura bianca del flautista che si intravede nell’angolo sinistro della tela, come nel taglio audace di un’istantanea fotografica. La chioma scompigliata di Muzio e la bacchetta tenuta nella destra risultano dei veri e propri guizzi di invenzione da parte del grande Boldini.
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Giuseppe Verdi in cilindro
1886
pastello su carta; 65 x 54
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e ContemporaneaRispetto all’austera versione a olio del Verdi seduto, dipinta a figura intera con particolare finitezza, della quale lo stesso Boldini era rimasto scontento, questo ritratto a pastello risulta invece felicissimo nel suo guizzo inventivo e nella evidente tensione interiore che caratterizza il personaggio. La trasparenza e leggerezza tipiche dei ritratti di Boldini della metà degli anni Ottanta, vengono qui accentuate dalla tecnica del pastello, sperimentato contemporaneamente anche da Degas. I due principi del “finito” e dell’”abbozzo” coesistono nella stessa immagine. I pieni si svuotano con facilità e i vuoti acquistano un particolare dinamismo conferendo al volto naturalezza ed espressività. È un’immagine forte, decisa, che evidenzia la “presenza” del grande musicista attraverso, però, una “povertà” ed essenzialità di linee e di colori. Sembra un’apparizione delicata ma improvvisa, tanto che lo stesso musicista, rimanendo un po’ interdetto, scriverà a Ricordi, che voleva riprodurre quell’immagine nell’edizione dell’Otello: «Per quanto sia grande la rassomiglianza e il merito del lavoro, mi pare sia uno scherzo più che un ritratto serio». Il cilindro lucido e il cappotto nero conferiscono uno scuro contrasto al viso luminoso dalla barba bianca e al candore elegante del foulard. I dettagli chic e un po’ mondani dell’abbigliamento e la caratterizzazione precisa ed espressiva del volto, dallo sguardo fisso e stupito, formano un’immagine davvero indimenticabile di uno dei personaggi più importanti della cultura musicale italiana e internazionale.
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Pastello bianco (Emiliana Concha de Ossa)
1888
olio su tela; 200 x 110
Milano, Pinacoteca di Brera (in deposito presso la Galleria d’Arte Moderna)Il colore bianco perlaceo dei veli del vestito, del pallore dell’epidermide e dell’armadio rococò del fondo, caratterizza il ritratto di Emiliana Concha de Ossa più che la sua stessa identità di nobildonna, a tal punto da trasformare il titolo dell’opera in Pastello bianco. La tecnica del pastello, tra l’altro, accentua la suggestione di candore vaporoso della luce, che lascia intravedere trasparenze di carnagioni e tessuti. Il nostro sguardo si sofferma sul viso bellissimo, sottolineato dalla fascia scura di velluto intorno al collo, sui fiori dello scollo e sulle pieghe della veste, assecondate dall’intreccio delle dita, e poi fin giù alla punta della scarpina. E la pittura, segno dopo segno, sembra dare vita alla giovane donna. Sappiamo che Boldini amava molto questo ritratto tanto da ricordarne affettuosamente la modella molti anni dopo, rivolgendosi a De Pisis nel 1925: «Avrebbe dovuto vederla viva […] Quello [il ritratto] è niente! Vorrei abbracciarla! A lei ho dato una copia: il ritratto mi piaceva troppo, l’ho tenuto io !». Nella contemporanea Signora nello studio dinanzi al“Pastello bianco”, l’amato ritratto viene citato in secondo piano come contrasto alla parte scura della figura in ombra che gli sta di fronte. Ma sembra essere una versione diversa da quella qui presa in esame, dove la figura appare più vicina alla sedia e con una gonna azzurra e rosa. Il quadro verrà esposto nel 1889 all’Esposizione universale di Parigi, ottenendo la medaglia d’oro e il “grand prix”.
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Lady Colin Campbell
1894 circa
olio su tela; 182 x 117
Londra, National Portrait GalleryLa posa seduta e frontale, con il braccio che, appoggiato sulla spalliera di una dormeuse, puntella la testa, è la medesima di altri due personaggi ritratti da Boldini poco dopo: Madame Veil-Picard e il pittore americano Whistler del 1897. In questo ritratto londinese, però, la trama pittorica risulta più impalpabile, più mossa e vaporosa, specie nella resa del vestito nero dai mille riflessi di luce, in contrasto con il candore latteo della pelle e con la delicatezza delle rose che adornano la scollatura. Lady Colin Campbell appare avvolta da una luce artificiale, opaca e fastosa, che la immerge in una dimensione nobile e classica. Le pennellate sono quasi impercettibili, leggere e vibranti, e formano un tessuto delicato che fa da sfondo alla figura, decentrata sul lato sinistro della tela. Questo tipo di ritratto di grande formato avrà sempre più fortuna nella produzione di Boldini, e verrà conteso dal bel mondo, nonostante la visione movimentata e smaterializzata della composizione che, senza dubbio, rompe l’assetto tradizionale e statico. Un universo, quello che sfila nelle tele di Boldini, snob, dorato e fatuo, ma che non ci restituisce a tutti i costi una reale condivisione dei suoi valori, come lo stesso Boldini spiegherà a De Pisis: «Anche quando ero giovane non è che mi piacesse il lusso: niente affatto, ma vivere in società era necessario per me».
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Robert de Montesquiou
1897
olio su tela; 160 x 82,5
Parigi, Musée d’OrsayL’atteggiamento distaccato e dandy proprio del conte intellettuale Robert de Montesquiou-Fesénzac risulta particolarmente evidente in questo ritratto di Boldini che lo coglie mentre, quasi annoiato, concentra la sua attenzione sull’impugnatura blu del bastone da passeggio. Giocato tutto sulle raffinate tonalità grigio perla e tortora, il ritratto risulta di una eleganza e di una civetteria “alla parigina”, rese attraverso la particolare cura dei dettagli dell’abbigliamento, come i magnifici guanti di “chevreau”, e l’espressione altera e misteriosa del volto. Ma vale la pena di riportare ciò che Montesquiou scriverà sul suo “doppio”, rivolgendosi allo stesso artista: «Mio caro Boldini, un personaggio di Shelley, il mago Zoroastro, si incontrò un giorno con se stesso, mentre passeggiava nel suo giardino. La stessa cosa, in meglio, è capitata a me, poiché questo secondo me stesso che io ho incontrato porta la vostra firma. Il Padiglione delle Muse s’illumina oggi di un quadro magistrale, che è il ritratto del suo padrone; ed è un pensiero delicato averne voluto ornare la casa del modello nel momento in cui amici e nemici sono concordi nel lodare il vostro capolavoro. Il ringraziamento del modello sta nella sua alta ammirazione per il pittore, nel suo profondo affetto per l’amico». L’opera rappresenta, infatti, la sintesi più alta della ritrattistica boldiniana di fine secolo che presagisce già i “manierismi” e le magie cromatiche e formali dei ritratti belle époque del Boldini di primo Novecento.
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Miss Bell
1903
olio su tela; 205 x 101
Genova, Galleria d’Arte ModernaIn questi ritratti di dame e gentildonne dell’alta società, che si succederanno sempre più nel nuovo secolo, Boldini crea una visione “in movimento” attraverso pennellate notevolmente allungate che conferiscono alle figure un aspetto dinamico e manierista, che ricordano, quasi, le allucinate visioni deformate dei cinquecenteschi Pontormo o El Greco. Il volto di Miss Bell è ripreso di profilo, appoggiato al braccio piegato sulla spalliera della sedia, e risulta nitido e preciso nella caratterizzazione fisionomica. Il corpo, invece, avvolto nelle pieghe vorticistiche dell’abito rosa scuro, sembra espandersi nello spazio circostante, privo di contorni, suggerendo una sorta di “durata” nel tempo della splendida apparizione. Boldini, oltre alle soluzioni dinamiche di Degas e di Toulouse-Lautrec, doveva avere fatto propri anche gli studi sul movimento del grande Rodin, oppure le teorie di Medardo Rosso, il quale smaterializzava, tramite gli effetti lumistici della materia, la sua scultura nello spazio, in una fusione tra oggetto e ambiente. Boldini, per mezzo di una luce artificiale e di pennellate lunghe, ci offre le direzioni dell’espansione dell’oggetto, che sembra smaterializzarsi sotto i nostri occhi. L’ambiente dove Miss Bell sembra fluttuare non ha più nulla di reale, né di terreno, sembra un’atmosfera astratta priva di gravità. Questo chiaro intento di decostruire la realtà e di animarla tramite invenzioni visive dinamiche, sembra anticipare i successivi esperimenti di fotodinamica di Anton Giulio Bragaglia, che fissa le traiettorie di un corpo in movimento tramite una lunga posa fotografica, o persino i movimentismi dei futuristi e delle avanguardie del primo Novecento
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Mademoiselle Lanthelme
1907
olio su tela; 231 x 123
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e ContemporaneaQuesto affascinante ritratto sembra una perfetta sintesi della poetica formale del pittore, caratterizzata dal vigore della pennellata e dalla figura serpentinata che sembra espandersi nello spazio circostante. Il modello di partenza, ancora presente in questo periodo avanzato della produzione di Boldini, potrebbe essere la ritrattistica anglosassone del Settecento, come Lawrence, Reynolds e Gainsborough. Il dinamismo dell’abito e la carica energica che emana da tutto il dipinto rendono quest’opera di una raffinatezza ineguagliabile. L’immagine è giocata sui diversi toni del nero dello scintillante abito, che si distacca appena dall’oscurità “astratta” del fondo. Il volto, fermo e impassibile, emerge con intensità magnetica dai riccioli neri e dal cappello piumato, e guizzi luminosi accendono le maniche del vestito dove spicca una splendida rosa che sembra dialogare con l’incarnato del viso. La posa quasi frontale e il piglio deciso della donna vestita di nero sono elementi che ritroveremo anche nel famoso ritratto della Marchesa Casati con i levrieri, del 1908. A proposito del dinamismo di Boldini, alle origini della sensibilità artistica delle avanguardie, come gran parte della critica sostiene, e in sintonia con il fotodinamismo di Anton Giulio Bragaglia, molto significativo appare un ricordo del fratello di Boldini, Gaetano, che nel 1926 dichiara nel corso di un’intervista: «Molto strano era il suo modo di dipingere giacché egli non faceva posare il modello ma voleva che si muovesse dinanzi a lui per imprimere i tratti vitali con maggiore evidenza sulla tela».