Edouard Manet: biografia
Nato a Parigi nel 1832 da una famiglia agiata, Edouard Manet intraprende gli studi classici, durante i quali già nutre una forte passione per il disegno. In seguito è costretto però a scegliere la carriera di ufficiale di marina, pur di sfuggire a quella giuridica impostagli dalla volontà paterna. Respinto agli esami di ufficiale, al ritorno da un viaggio in nave a Rio de Janeiro, Edouard riesce a convincere il padre a lasciargli coltivare l’inclinazione artistica. Così nel 1850 comincia a frequentare l’atelier del pittore accademico Thomas Couture, dove rimarrà fino a quando, nel 1856, entrerà in conflitto con il maestro. La definitiva rottura tra i due avverrà nel 1858, a causa dei giudizi negativi di Couture sul Bevitore d’assenzio di Manet. In questi anni si compie, in realtà, la vera educazione artistica del pittore che, convinto che il rinnovamento della pittura debba partire dalla conoscenza della tradizione, nel 1853 si reca in Italia per studiare soprattutto i capolavori di Firenze, e nel 1856 viaggia per l’Olanda, l’Austria e la Germania. Comincerà a conoscere gli ambienti artistici parigini, entrando in contatto con Fantin-Latour, Degas e il poeta Baudelaire, che diventerà suo grande amico e sostenitore. Nel 1860 conosce Berthe Morisot, giovane pittrice di talento, che sarà sua allieva e modella. Comincerà anche a esporre le sue prime opere ai Salon, come per esempio Il chitarrista nel 1861. Saranno molti i quadri di questo periodo dedicati a soggetti spagnoli, che testimoniano l’autentica passione di Manet per la pittura ispanica, da cui traeva spunti compositivi e formali, in particolare da Velázquez e Goya. Il 1863 è l’anno del famoso Déjeuner sur l’herbe, rifiutato al Salon ed esposto nel polemico Salon des Refusés, suscitando scandalo. Baudelaire prende le sue difese, ma ormai per l’artista è iniziato un periodo difficile, divenendo oggetto di polemiche astiose da parte della critica degli ambienti ufficiali (Accademia e Salon). Da questo momento inizierà però il cammino della pittura moderna, in cui Manet crederà fermamente a partire dal Déjeuner e continuando con l’Olympia (1863, esposta al Salon del 1865), opere che, rielaborando temi classici in un contesto moderno, con arditi contrasti formali e tematici, provocheranno feroci reazioni. Nel 1865 Manet realizza un viaggio in Spagna, mentre l’anno successivo il Salon rifiuterà due sue opere: L’attore tragico e Il pifferaio, quest’ultimo basato sulle forme bidimensionali definite dal contorno, tipiche dell’arte giapponese, costante riferimento per l’arte di Manet. Nel 1867 all’Esposizione universale le sue opere vengono escluse, ma saranno apertamente difese dallo scrittore Emile Zola che diviene amico e fedele sostenitore del pittore, sostituendosi, in un certo senso, a Baudelaire morto in quell’anno. Nel 1868 il Ritratto di Emile Zola suggellerà la loro amicizia. Durante gli anni Settanta, quando partecipa anche alla vita politica della Comune nata dal crollo dell’Impero, Manet fa anche altri ritratti di intellettuali, tra cui spicca la piccola tela che raffigura il poeta Stéphane Mallarmé. Baudelaire, Zola, Mallarmè avevano tutti sostenuto e compreso la sua pittura, ritenendola capace di rappresentare la realtà della vita contemporanea ed espressione di un rinnovamento profondo dell’arte. Tuttavia, pur avendo Manet spianato la strada e pur partecipando alle discussioni del Café Guerbois e della Nouvelle Athènes, non partecipa alla prima esposizione degli Impressionisti presso Nadar nel 1874, poiché non si riconosce in quell’avventura. Fino alla fine produrrà capolavori dalla struttura libera e audace, restando comunque legato alla figura e ai colori puri e naturali. Nasceranno così splendidi dipinti come Déjeuner dans l’atelier (1868), Berthe Morisot col ventaglio (1872), Ferrovia (1872-1873), NanaBar alle Folies-Bergère, ultimo quadro di vita contemporanea. Muore a Parigi il 30 aprile del 1883.
Edouard Manet: le opere
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Cantante di strada
1862 circa
olio su tela; 175 x 109
Boston, Museum of Fine ArtsIn questo splendido dipinto, Manet fa posare per la prima volta, davanti all’entrata di un modesto cabaret, Victorine–Louise Meurent, che diventerà la sua modella preferita sino al 1875. Qui è colta come di sorpresa, mentre, con una dolce malinconia nello sguardo assorto, porta alla bocca alcune ciliegie che trae da un cartoccio. La figura è leggera e vaporosa nel tratto ma, secondo Richardson, il ritaglio netto delle forme costituirebbe il primo manifestarsi dell’interesse dell’artista per la pittura giapponese. Anche quest’opera di Manet, come tutte le altre di questi anni, verrà bocciata dalla critica, disorientata dal soggetto, soprattutto nel 1863 in occasione della presentazione della Cantante di strada, insieme ad altre tredici tele, presso la galleria Martinet. Le reazioni saranno negative e scandalizzate quasi all’unanimità e avranno conseguenze sull’invio al Salon di quello stesso anno, dove, infatti, tutte le opere di Manet verranno respinte (insieme a quelle di Courbet, Doré e molti altri). Manet e Gustave Doré presenteranno una petizione al Ministero delle Belle Arti, ottenendo dall’imperatore Napoleone III la creazione del Salon des Refusés (dei rifiutati), con circa milleduecento opere, che, seppure ritenuto una buona occasione per contrapporsi alla cultura ufficiale, verrà ulteriormente esposto ai giudizi scatenati e divertiti della critica.
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Olympia
1863
olio su tela; 130 x 190
Parigi, Musée d’OrsayNel 1853, durante il suo viaggio in Italia, Manet aveva copiato la Venere di Urbino di Tiziano, che costituì uno dei sicuri precedenti di quest’opera, insieme alla Maja desnuda di Goya. La modella è Victorine Meurent, ritratta più volte dall’artista, mentre il titolo è stato imposto, quindici mesi dopo l’esecuzione del quadro, da Zacharie Astruc, pittore e amico di Manet. La presentazione dell’Olympia al Salon del 1865 sollevò un tale sconcerto da diventare un fatto di cronaca. L’opera fu violentemente contestata dai visitatori che manifestarono l’intenzione di distruggerla. Fu perciò collocata più in alto possibile, sotto il controllo attento di due agenti. La carnalità sensuale del nudo, circondato da accessori e oggetti alla moda, rappresentava certamente una grossa rottura delle convenzioni e dei codici di rappresentazione. Ogni dettaglio del quadro andava contro le idee e l’etica dell’epoca, nonostante alcuni elementi tradizionali come l’equilibrio formale, la purezza del tratto e il felice succedersi di toni chiari. In realtà, ciò che egli essenzialmente combatteva era quella sfera ideale e teatrale che inglobava l’arte dell’epoca e i suoi canoni estetici accademici e borghesi. Emblematiche e molto eloquenti le parole di Paul Valery, scritte nel 1932: “Olympia urta, sprigiona un orrore sacro, si impone e trionfa. È scandalo, idolo; potenza e presenza pubblica di un sordido arcano della società. La sua testa è vuota: un filo di velluto nero la isola dall’essenza del suo essere. La purezza di un tratto perfetto racchiude l’Impura per eccellenza, colei la cui funzione esige l’ignoranza tranquilla e candida di ogni pudore”.
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Déjeuner sur l’herbe (Colazione sull'erba)
1863
olio su tela; 208 x 264
Parigi, Musée d’OrsayLa famosa Colazione sull’erba s’intitolava originariamente Le Bain, poiché nella prima composizione dell’opera il soggetto avrebbe dovuto essere quello di Suzanne al bagno, variante assai libera del quadro di Rembrandt che si trova all’Aja. Sarà soltanto dopo, nell’agosto 1862, ad Argenteuil, che Manet formulerà il progetto definitivo dell’opera, guardando alcune donne nuotare nella Senna. La struttura compositiva e l’idea formale dell’opera derivano dal Concerto campestre di Giorgione e dall’incisione con il Giudizio di Paride di Marcantonio Raimondi tratta da Raffaello, anche se il paesaggio è quello francese dell’isola di Saint-Ouen. Manet, intenzionato con quest’opera a raggiungere la celebrità, era consapevole del carattere provocatorio e quasi sacrilego di certi elementi introdotti nel quadro. Il contrasto, per esempio, tra la giovane donna nuda accanto ai due uomini vestiti con abiti cittadini si rivela una scelta audace che mette in imbarazzo i contemporanei, poiché la scena non assume una dimensione storica o mitologica, bensì attuale e moderna, come un picnic in riva all’acqua dal forte contenuto erotico. La tecnica pittorica adottata rende, inoltre, la resa del soggetto ancor più sconcertante, per lo spiccare dell’incarnato vivo e realistico della donna che, secondo il giudizio del vecchio Eugène Delacroix, “penetra negli occhi come una sega”. Al Salon del 1863 il quadro fu respinto dalla giuria e pertanto presentato al primo Salon des Refusés, che Napoleone III aveva fatto allestire per accogliere i cosiddetti “rifiutati”. Manet, che oltre alle critiche dei benpensanti aveva guadagnato molti difensori, ottenne comunque ciò che desiderava, ossia essere considerato il capofila della sua generazione.
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Torero morto
1863
olio su tela; 75 x 154
Washington, National GalleryNonostante fosse stato accettato al Salon del 1864, il Torero morto provocò l’ilarità della critica. Inizialmente non era destinato a essere un soggetto autonomo, costituiva infatti la parte bassa di una grande tela intitolata Episodio di combattimento di tori, che venne appunto smembrata in due parti, che diventeranno Toreri in azione e Torero morto, dopo l’insuccesso al Salon. Il “Journal Amusant” ironizzò: “Giocattoli spagnoli accomodati alla maniera di Ribera dal Sig. Manet y Courbetes y Zurbaran de las Batignolas”, mentre lo scrittore Edmond About descrisse il quadro come “un torero di legno ucciso da un topo” per evidenziare gli “errori” di prospettiva. Per le fonti della composizione di questo torero, completamente sdraiato in un angusto spazio orizzontale, era stato rintracciato l’Orlando morto attribuito a Velázquez, che si trovava allora nella galleria Pourtalès; il che sarebbe stato smentito da Baudelaire in una lettera a Thoré-Burger, dove si diceva che Manet non aveva mai visto la galleria Pourtalès. In questi anni Manet privilegerà particolarmente i soggetti spagnoli nelle sue opere: ballerini, musicisti, gitani, toreri e donne in costume tradizionale abiteranno la sua fantasia fino al culmine del viaggio a Madrid nel 1865. La figura sdraiata del torero, sebbene riveli una certa rigidezza del corpo, è finemente riscattata dai colori che contrastano tra loro creando un effetto suggestivo: il nero serico dell’abito con il bianco della camicia e delle calze o la muleta appena timbrata di rosa contro il bruno dell’arena che costituisce il fondo.
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Il pifferaio
1866
olio su tela; 97 x 160
Parigi, Musée d’OrsayDipinto nel 1866, il quadro, considerato uno dei capolavori di Manet, fu rifiutato dal Salon di quello stesso anno, insieme al dipinto L’attore tragico. Émile Zola, che durante una visita allo studio di Manet aveva avuto modo di vedere Il pifferaio, ne rimase favorevolmente impressionato e ne commentò l’aspetto scarno e semplice: “La semplificazione creata dall’occhio chiaro e giusto dell’artista, ha fatto della tela un’opera assolutamente delicata e ingenua, deliziosa fino alla grazia e reale fino all’asprezza”. Forse fu proprio quell’asprezza realistica a non convincere la critica, insieme al fatto che il pifferaio aveva le fattezze della modella Victorine Meurent. La figura è campita su uno sfondo chiaro, ritratta nella divisa resa con pochi colori a toni molto accesi, su cui risaltano il bianco della bandoliera e delle ghette e l’oro e il nero delle guarnizioni. È evidente la suggestione della pittura giapponese, basata appunto sull’appiattimento delle forme, definite dal solo contorno, mentre, nel modo di isolare la figura su un fondo monocromo, viene evocato Velázquez, la cui arte Manet aveva avuto modo di approfondire durante il suo viaggio in Spagna del 1865.
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L’esecuzione di Massimiliano
1868
olio su tela; 251,4 x 304,8
Mannheim, KunsthalleA conferma di quanto la scoperta della fotografia sia stata importante per i pittori contemporanei, che la consideravano sempre più un valido ausilio per fissare e studiare la realtà, sappiamo che Manet utilizzò almeno quattro documenti fotografici per dipingere L’esecuzione dell’imperatore Massimiliano. Il 19 giugno 1867 Massimiliano d’Austria, da poco imperatore del Messico, venne fucilato a Queretaro. Manet, che era rimasto molto colpito da questo brutale avvenimento, cominciò a trasporre questa scena partendo dai documenti apparsi sui giornali, ma riferendosi anche a un quadro storico, che aveva visto due anni prima al museo del Prado, Il tre maggio 1808: Fucilazione alla Montagna del principe Pìo (1814) di Goya. Questo rimarrà l’unico dipinto in cui Manet affronterà un tema civile e contemporaneo, quadro che verrà escluso dall’esposizione all’Alma per motivi politici. In seguito, il pittore rimaneggerà il quadro trasformando le uniformi del plotone d’esecuzione da messicane in francesi. In ogni caso si tratta di un’opera straordinaria, caratterizzata da una freddezza tonale e da un’uniformità cromatica che sottolineano una reale distanza emotiva dal dramma che si consuma nella scena, pur se indimenticabili rimangono i visi che si stagliano sopra il muro, come nelle corride di Goya, e il volto scarnificato dell’uomo colpito in pieno dal fuoco del fucile. L’equilibrio compositivo risulta perfettamente cadenzato dalla disposizione simmetrica delle figure nello spazio (contrapposizione dei carnefici e delle vittime) che trasforma, quasi, il dramma storico in un dramma plastico.
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Ritratto di Emile Zola
1868
olio su tela; 146 x 114
Parigi, Musée d’OrsayOltre all’amicizia e all’appoggio di Baudelaire, che si era spento nel 1867, Manet poté contare sull’amicizia e sull’ammirazione del giovane scrittore Emile Zola, che allora si stava lanciando con entusiasmo nella carriera giornalistica. Questi, nel maggio 1866, aveva scritto un articolo in difesa dell’opera di Manet e l’anno dopo gli aveva dedicato una monografia biografica e critica elogiandone la modernità (opera che, nel quadro, appare riprodotta sul tavolo a destra, dietro il calamaio). Zola è ritratto nel suo studio, seduto su una poltroncina imbottita, posto di profilo con le gambe accavallate, in una posa del tutto naturale mentre, davanti alla sua scrivania, tiene tra le mani un libro aperto. Lo straordinario volto pallido e delicato emerge per contrasto con il nero della tappezzeria del fondo e della giacca di velluto che indossa. Ma ciò che rende particolarmente interessante e prezioso questo ritratto è la palese derivazione stilistica dalla pittura di Velázquez e dalle pennellate piatte dell’arte giapponese. Questi interessi di Manet vengono testimoniati anche attraverso la presenza di una incisione dai Borrachos (I beoni) di Velázquez e di una stampa di Utamaro, appese alla parete alle spalle di Zola, insieme a una piccola copia dell’Olympia di Manet a cui lo scrittore aveva dedicato parole di grande apprezzamento. Un altro omaggio alla pittura giapponese è rappresentato, inoltre, dal paravento di seta con i rami fioriti, che realmente faceva parte dell’arredamento dello studio dello scrittore francese.
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Ferrovia (La Gare St. Lazare)
1872-1873
olio su tela; 93 x 114
Washington, National Gallery of ArtL’opera risale agli anni chiave dell’impressionismo, movimento al quale Manet non aderì mai ufficialmente, ma di cui sembra qui subire il fascino nell’alleggerimento dell’impasto dei colori che permette un rapporto più naturale tra l’ambiente e le figure. Queste sono caratterizzate da spontaneità e mutevolezza di atteggiamenti di fronte all’evento del passaggio del treno alla stazione ferroviaria. La donna seduta sul muretto, ritratto di Victorine Meurent, con un cagnolino sonnecchiante sulle ginocchia, resta indifferente all’arrivo della macchina, anche se interrompe per un istante la lettura; la bambina, vista di spalle, partecipa con entusiasmo guardando dalla cancellata i vapori lasciati dal treno, ed è il ritratto della figlia del pittore Hirsch. I due sentimenti contrapposti, la malinconica consapevolezza della maturità e la vivace curiosità della fanciulla, vengono sottolineati anche dalle diverse tonalità dei colori: un blu freddo e metallico per la donna e gradazioni più chiare e luminose di bianco per la bambina. La scena dal taglio basso e orizzontale, ambientata nel giardino del pittore Hirsch, possiede una straordinaria forza evocativa, in cui la macchina, nascosta dalla nuvola di fumo diviene presenza-assenza, modificando i contorni e i colori del paesaggio urbano circostante. Presentato al Salon del 1874, questo dipinto ricevette un’accoglienza ostile, ma fu difeso da Mallarmé che da quel momento divenne amico dell’artista.
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Déjeuner dans l’atelier
1876
olio su tela; 120 x 154
Monaco, Neue PinakothekNel corso di una vacanza a Boulogne-sur-Mer, nell’estate del 1868, Manet tracciò un bozzetto, di cui non restano tracce, per quest’opera che poi realizzò a Parigi. Il perno compositivo, costituito dal giovane in primo piano tracciato con una fattura realista, è il ritratto di Léon Koella, figlio naturale del pittore, colto nel suo elegante completo alla moda mentre si appoggia con disinvoltura sul tavolo che ancora ospita i resti di un pranzo appena consumato. Sembra stare sul filo della superficie del quadro in un sospeso atteggiamento di attesa che determina sottilmente anche la presenza delle altre due figure. Queste, immerse nella penombra dello sfondo abbozzato da pennellate veloci e dense, in contrasto con la nitidezza del primo piano, sono, a destra, Auguste Roussellin (artista allievo di Gleyre e di Couture, conosciuto da Manet proprio nello studio di quest’ultimo) che, ancora a tavola, fuma la pipa, e una donna non identificata, forse una modella improvvisata, ripresa con una brocca d’acqua in mano. La grande pianta a foglie lucide sullo sfondo e l’elmo con le vecchie armi in primo piano sono degli oggetti prestati dal pittore Monginot a Manet appositamente per essere ritratti in questo dipinto. Il dipinto risente dell’influsso della pittura spagnola di Velázquez e Goya, e non mancano reminiscenze della Famiglia Bellelli di Degas, nell’insolita elaborazione. Presentata al Salon del 1869, l’opera ricevette la critica di Castagnery e di Chaumelin.
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Ritratto di Stéphane Mallarmé
1876
olio su tela; 27 x 36
Parigi, Musée d’OrsayDopo il bellissimo ritratto di Emile Zola, durante gli anni Settanta Edouard Manet eseguirà anche altri ritratti di intellettuali, come quello di Antonin Proust, di Zacharie Astruc e questo del poeta Stéphane Mallarmé, che il pittore non costringerà a subire lunghe sedute di posa in studio, preferendo piuttosto tracciare degli schizzi durante le loro conversazioni. Il risultato sarà un ritratto spontaneo e tutt’altro che formale, eseguito con pennellate rapide e sciolte, con un tratto lungo e libero che evidenzia anche la posa naturale del soggetto, seduto comodamente su un divano fiorito. È probabile che l’effetto finale avesse sorpreso positivamente anche lo stesso artista, tanto da lamentarsi di non avere avuto una tela più grande: per questo motivo Manet la fece ampliare di cinque centimetri, che ricoprì dipingendo il motivo floreale della carta da parati giapponese. L’artista e il poeta si erano conosciuti due anni prima, durante una collaborazione all’edizione francese del poema Le Corbeau di Edgar Allan Poe, tradotto da Mallarmé e illustrato da Manet. Lo scrittore, inoltre, aveva spesso difeso l’arte di Manet e la sua “lotta per tradurre in forme d’arte quelle verità che in natura sono eterne, ma, agli occhi delle masse, inusitate e nuove”.
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Nana
1877
olio su tela; 154 x 115
Amburgo, KunsthalleConsiderato un soggetto troppo licenzioso, il quadro fu respinto dalla giuria del Salon del 1877 e quando venne esposto alla galleria Girou, sul Boulevard des Capucines, il pubblico rimase così scandalizzato da sollecitare l’intervento della polizia. La scena del dipinto rappresentava certamente una provocazione per il perbenismo borghese dell’epoca, poiché l’abbigliamento succinto della donna, la presenza dell’uomo e l’arredamento dell’ambiente, lasciano intuire che si tratta di un incontro piccante. Sappiamo che la giovane modella era la prostituta e soubrette Henriette Hauser che posò nello studio di Manet proprio durante l’uscita a puntate su “Republique des Lettres”, tra il luglio 1876 e il gennaio dell’anno successivo, del romanzo L’assommoir (L’ammazzatoio) di Emile Zola. A giudizio di molti critici per questo ritratto Manet trasse spunto da Nana, un personaggio del romanzo naturalista di Zola, autentica galleria di mondanità, di prostitute d’alto bordo e ballerine di Offenbach delle notti parigine. L’ambiente, dove la vanitosa Nana posa con malizia davanti all’uomo elegantemente abbigliato, è imbevuto di una fresca e luminosa luce mattutina che colpisce il volto vivace della donna rivolto verso il pittore che la ritrae, e la bellissima sottoveste di tulle bianco che concentra tutta l’attenzione del dipinto. Le pennellate rapide e sicure e l’ambientazione leziosa e domestica ricordano la pittura del Settecento, in particolare Boucher.
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Bar alle Folies-Bergère
1881-1882
olio su tela; 96 x 130
Londra, Courtauld Institute of ArtSi tratta dell’ultima grande composizione che Manet dedicherà alla celebrazione della vita contemporanea. Dipinta nel 1881, fu presentata al Salon del 1882 ottenendo un vivo successo di critica forse anche per la sua freschezza e libertà inventiva. Si trovava nell’atelier dell’artista nel 1883 (anno della sua morte) e fu acquistata dal musicista Emmanuel Chabrier, amico intimo di Manet, che aveva assistito agli ultimi istanti della sua vita. In questo straordinario dipinto la misteriosa Suzon, una delle due cameriere del bar, è ritratta da Manet al centro della scena, in una posizione isolata ed enigmatica, distaccata dal fondo relativamente vicino all’osservatore. Il grande specchio alle spalle della ragazza riflette la brulicante animazione della sala del caffè-concerto, il grande lampadario e, in alto a sinistra, le gambe del trapezista al quale pare nessuno presti attenzione. La schiena della donna è riflessa di sbieco, in una posizione più inclinata di come appare di fronte, in modo tale da farci percepire anche la figura del cliente col cilindro nero. Come in altri quadri, Manet fonda la composizione sui contrasti: tra linee orizzontali e verticali, tra neri e bianchi che spiccano nella tonalità giallo-azzurra dominante, ma soprattutto tra l’allegria artificiosa della sala e la solitudine malinconica della ragazza. In primo piano, sul bancone, il vaso con le rose, la fruttiera con i mandarini e le bottiglie di varie forme e colore formano una delle nature morte di più alta qualità mai dipinte. E sull’etichetta dell’ultima bottiglia a sinistra leggiamo: “Manet 1882”.