Henri Rousseau : biografia
Henri Rousseau nasce a Laval nel 1844 da una famiglia della media borghesia che presto lascerà per arruolarsi volontario in fanteria nel 1863, per evitare la casa di correzione in seguito al furto di pochi franchi nello studio di un avvocato, motivo per cui sconterà un mese di pena nella prigione di Pré Pigeon. Dopo aver lavorato a Parigi come scrivano presso un ufficiale giudiziario e come soldato semplice durante la guerra di Prussia nel 1870, ottiene un posto all’ufficio comunale del dazio di Parigi (e non alla dogana come lascia intendere il suo soprannome), impiego che abbandonerà nel 1885 per dedicarsi, già quarantenne, alla pittura da autodidatta. Nel 1884 ottiene l’autorizzazione a far copie dei dipinti al Louvre, e inizia anche a frequentare i corsi di pittura tenuti da Gérome e Clément. Le sue prime apparizioni al Salon des Indépendants vengono accolte con derisione dalla critica. I primi a capire quanto quelle visioni fantastiche e apparentemente ingenue e “incolte” esprimessero una genialità fuori dal comune e la purezza del suo approccio alla pittura, saranno alcuni giovani artisti come Odilon Redon, Paul Gauguin, Robert Delaunay, Picasso e il grande poeta Apollinaire. Suo appassionato sostenitore, Picasso nel 1908 organizza in onore dell’amico un banchetto, rimasto memorabile, a cui partecipano gran parte degli artisti e degli intellettuali che vivevano e operavano a Parigi. Le opere di Rousseau creavano una figurazione primitiva ed esotica, priva di relazioni spaziali e prospettiche, partendo da una descrizione minuziosa dei dati realistici che acquisiva, invece, una dimensione irreale, magica e favolistica. I primi paesaggi hanno una fattura piuttosto secca e sintetica ed evocano il ricordo dei primitivi italiani a causa della loro ingenuità. Il primo di quelli che egli battezzerà col nome di “ritratti-paesaggi” sarà l’Autoritratto-paesaggio del 1889-1890, che comincerà a far discutere seriamente la critica, anche se ciò che gli si rimprovererà sempre sarà di essere un autodidatta. Nel 1893 conosce il poeta e concittadino Alfred Jarry, che lo mette in contatto con i letterati del “Mercure de France” e con i caffè letterari parigini. Il processo di astrazione dal reale sarà sempre più evidente e consapevole nei suoi ritratti, come quello bellissimo di Pierre Loti del 1891 e nelle sue opere più ambiziose come La Guerra che si distinguerà al Salon des Indépendants del 1894. Altri dipinti influenzeranno addirittura la pittura metafisica e surrealista, da de Chirico a Dalí, per le loro atmosfere immobili, l’illuminazione irreale, i colori decisi ma soprattutto la tematica fiabesca e onirica come Zingara addormentata (1897) o Il sogno (1910). Quest’ultimo, in particolare, rientra nella famosa serie delle Giungle, attraverso cui Rousseau si inserisce nel genere esotico ottenendo un notevole successo. Queste opere saranno le più interessanti e originali perché, al di là della moda del tema in linea con le conquiste coloniali francesi, verranno eseguite dal pittore, a partire dal 1904 circa, con una meticolosità da botanico che lo spingerà a uno studio dal vero al Jardin des Plantes di Parigi. Uno dei più enigmatici e misteriosi sarà L’incantatrice di serpenti (1907) dal sapore primordiale che ricorda certamente Gauguin. Inviando con scadenza annuale le sue tele al Salon des Indépendants, Rousseau continuerà a fare scalpore con i suoi quadri ritenuti sempre più legittimati a far parte, alla soglia delle avanguardie, della modernità di inizio secolo. Cominciano anche le “soirées” in casa sua, frequentate da allievi, amici, artisti tra cui le nuove leve dell’avanguardia (Picasso, Braque, Delaunay, Brancusi). Nel 1910, dopo aver esposto l’ultimo lavoro, Il sogno, agli Indépendants, si ferisce a una gamba e muore di cancrena il 2 settembre all’ospedale Necker di Parigi, come racconta l’amico Delaunay. Ai funerali parteciperanno solo sette persone.
Henri Rousseau : le opere
Autoritratto – paesaggio
1889-1890Il dipinto inaugura la serie dei ritratti all’aperto, da Rousseau definiti “ritratti-paesaggi” dei quali egli si dichiarava fieramente l’inventore. Fu esposto al parigino Salon des Indépendants del 1890, dove non passò certo inosservato, suscitando ironici commenti, consacrando, però, ugualmente Rousseau come “artiste-peintre”. La sua professione è indicata chiaramente dagli accessori dell’autoritratto: tavolozza, basco e pennello, e, mentre certi dettagli del paesaggio definiscono chiaramente la città di Parigi, come il ponte sulla Senna, i tetti e i comignoli, altri alludono all’Esposizione Universale del 1889: le bandiere colorate sulla grande barca ancorata, la Tour Eiffel e la mongolfiera nel cielo azzurro. Sulla tavolozza si legge: «Clémence et Joséphine», i nomi della prima e della seconda moglie del pittore, il secondo dei quali (Joséphine) probabilmente aggiunto dopo il secondo matrimonio nel 1899. Anche il distintivo all’occhiello della giacca risulta aggiunto in un secondo tempo, ed è da identificare con il contrassegno dell’Ecole philotechnique, dove il pittore iniziò a insegnare nel 1901. In questa precoce opera sono delineate già tutte le caratteristiche dell’arte di Rousseau, che, nell’arco della sua carriera, non registrerà una particolare evoluzione stilistica o tematica. La stesura piatta caratterizzata da colori puri come smalto (qui particolarmente sobri), la mancanza di prospettiva geometrica, le strutture solide e semplificate del disegno saranno frutto del suo autodidattismo ma entreranno di diritto nell’ambito della modernità. Gauguin, di fronte a questo Autoritratto-paesaggio pare abbia esclamato: «Questa è la verità […] il futuro[…]. Questa è la quintessenza della pittura».
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Ritratto di Pierre Loti
1891 circa
olio su tela; 61 x 50
Zurigo, KunsthausPierre Loti (1850-1923) era uno scrittore francese famoso per il suo amore per l’Oriente, descritto con estrema lucidità nei suoi romanzi. Forse fu proprio questo comune desiderio di evasione verso mondi esotici e fantastici ad attrarre Rousseau e a indurlo a realizzare il ritratto dello scrittore, oltre alla nomina che aveva ottenuto nel 1891 a membro dell’Académie Francaise di cui aveva parlato la stampa dell’epoca. Anche se l’immagine frontale di Loti sembra alludere alla ritrattistica fiamminga del Quattrocento, è più probabile che Rousseau, che non aveva mai incontrato lo scrittore di persona, abbia scelto questa posa perché copiata da una delle foto pubblicate. La scelta di ritrarlo con il copricapo arabo, il fez, deve essere legata al successo ottenuto dallo scrittore con il suo libro Air Maroc, mentre la presenza del gatto è motivata dall’amore che Loti notoriamente nutriva per questo animale. A causa delle varie ridipinture subite dalla tela (sulle chiome arboree e sul viso) risulta difficile dare una datazione certa al dipinto, di cui un possibile termine “post quem” potrebbe essere il 1891, al tempo in cui i giornali si occupavano di Loti. Da una lettera conservata oggi al Kunsthaus di Zurigo, sappiamo che sorse un dubbio sull’identità del personaggio quando E. Franck pensò di riconoscere nell’uomo ritratto la propria immagine, un sospetto poco legittimo considerando che egli stesso nel 1911 aveva distrutto il ritratto eseguito da Rousseau nel 1901-1902.
La Guerra
1894Questa grande tela, esposta al Salon des Indépendants del 1894 con la didascalia «Passa spaventosa, lasciando dappertutto disperazione, pianti e rovina», fu l’opera più ambiziosa tra quelle eseguite fino ad allora, per invenzione e per esecuzione. Una ragazza scapigliata, personificazione della Guerra, domina l’umanità correndo sul suo nero cavallo, diffondendo morte col ferro e col fuoco. Sul campo di battaglia vi sono feriti e cadaveri gonfi già preda di corvi voraci. La terra è arida, gli alberi hanno i rami spezzati, le foglie sono annerite, e la pittura piatta, audace, basata sull’accostamento di colori violenti e decisi come il nero, il bianco e il rosa, rende, senza ricorrere a elementi narrativi, la drammaticità dell’evento. Una fiaba cattiva, un incubo, forse un ricordo lontano della guerra civile del 1871 tra la Comune di Parigi e il governo di Versailles. La fonte iconografica più diretta potrebbe essere la tavola illustrante il feuilleton Lo zar – apparsa sull’“Egalité” del 6 ottobre 1889, e subito dopo sul “Courrier francais” del 27 – come dimostra ancora meglio la litografia autografa, pubblicata nell’“Ymagier” del gennaio 1895. In realtà l’opera di Rousseau, che aveva riscosso molto successo, traduce tutte le suggestioni iconografiche, comprese quelle dei dipinti medievali del Louvre, di Paolo Uccello, della statuaria classica e di Géricault, in una visione interiore, grottesca e “primitiva” con effetti che precorrono il “realismo magico”. Dipinta nell’inverno 1893-1894, l’opera scomparve per cinquant’anni; è ricomparsa soltanto nel 1944 a Louviers, in possesso di L. Angue. Passata a Parigi, fu acquistata nel 1946 dal Louvre dal proprietario E. Mignon, per poi essere esposta al Musée d’Orsay.
Ritratto di donna
1895 circaIl dipinto viene ricordato soprattutto per il celebre “banquet Rousseau”, un ricevimento in onore del pittore avvenuto nel 1908 al Bateau – Lavoir, per festeggiare l’acquisto da parte di Picasso di questo Ritratto di donna, scoperto in vendita presso un rigattiere per cinque franchi. Alla festa, degenerata poi in eccessive bevute e zuffe, oltre al vecchio pittore, avevano preso parte tutti i più noti esponenti dell’avanguardia intellettuale parigina, da Apollinaire ai coniugi Stein, a Braque, Salmon e Max Jacob, tutti concordi nel ritenere Rousseau un grande interprete della modernità. La donna giganteggia in piedi in una posa frontale, insieme ad alcuni oggetti forse per lei quotidiani: un balconcino, le viole del pensiero e altri fiori nei vasi, uno strano ramo tenuto in mano e una tenda, che è stata riconosciuta come uno di quegli ornamenti che i fotografi collocavano alle spalle dei clienti: motivo per cui si potrebbe pensare che la concezione del dipinto derivi, appunto, da una foto. Come in tutti gli altri dipinti eseguiti da Rousseau dopo il 1890, la stesura pittorica risulta a campiture “piatte”, invece che “a tocco” e con una forte prevalenza del colore nero, altra sua caratteristica. Nonostante l’aspirazione “realista”, sottolineata dall’ambientazione domestica della scena, l’atmosfera è immobile e irreale, e la luce risulta priva di ombre e fonti, a tal punto da anticipare certe soluzioni figurative e tecniche dei surrealisti.
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Zingara addormentata
1897
olio su tela; 129,5 x 200,5
New York, Museum of Modern ArtNonostante la firma ben leggibile e la data 1897 segnata in basso e a destra, per molto tempo si è dubitato che si trattasse di un’opera autografa. Rousseau espose la grande tela al Salon des Indépedants del 1897 insieme ad altre sue otto opere. Dopo questa mostra il dipinto scomparve e fu identificato nel 1935 dal critico Louis Vauxcelles, grazie a una lettera datata 1898, indirizzata al sindaco di Laval con la quale il pittore cercava di convincerlo ad acquistare il quadro: «Una negra girovaga, suonatrice di mandolino, con la giara a fianco, dorme profondamente, spossata dalle fatiche. Un leone passa per caso, l’annusa, ma non la divora. È un effetto di luna molto poetico. La scena si ambienta in un deserto del tutto arido. La zingara indossa vesti orientali». Le parole di Rousseau, prive di qualsiasi intento intellettuale e filosofico, sembrano racchiudere la vera essenza della sua arte, ossia la creazione di uno spazio immaginato, irreale, quasi magico attraverso una figurazione spontanea, lineare e “ingenua”. Il fascino di questo quadro, ben lontano dal probabile modello rintracciato in Le due maestà di Gérome, risiede, appunto, nell’incontro suggestivo di due componenti, quella esotica e fiabesca con quella formale semplice e sintetica, caratterizzata da purezza di linee e contorni. Non a caso il quadro meritò gli apprezzamenti di de Chirico, Dalí e soprattutto dal maestro del surrealismo Jean Cocteau che lo recensì con parole che ne restituiscono poeticamente l’essenza profonda: «Da dove viene una cosa simile? Dalla luna… Del resto, esiste forse un motivo se il pittore, che non dimenticava mai un solo dettaglio, non ha tracciato sulla sabbia neppure un’impronta attorno ai piedi addormentati. Nel posto in cui si trova, la zingara non ci è venuta: è là, non è là. Non è in un luogo dalle caratteristiche umane».
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Il pasto del leone
1907
olio su tela; 113,5 x 160
New York, Metropolitan MuseumLe belve feroci compaiono spesso come abitanti delle giungle di Rousseau, come piccolo dettaglio significativo in una vegetazione dalle gigantesche proporzioni. L’atmosfera enigmatica e surreale di questi luoghi della fantasia affascinarono molti artisti delle avanguardie novecentesche e persino il più tradizionalista de Chirico, che riprodusse l’Autoritratto – paesaggio del Doganiere in uno schizzo dal 1915. Nonostante egli non volesse ammettere l’influenza di Rousseau sulle sue opere, alcuni dipinti, come Leone e leonessa del 1926-1927 o Gladiatore e leone del 1927, rimandano alle belve ritratte nelle giungle del Doganiere e a quella loro particolare atmosfera irrazionale, magica e senza tempo. Il tema di questa tela è il medesimo del famoso Leone affamato del 1905, esposto al III Salon d’Automne vicino a Matisse, Braque, Roualt, Derain, che aveva provocato forti reazioni sulla stampa. Forse proprio in quell’occasione, in cui Louis Vauxcelles aveva definito il salone «la cage aux fauves» (la gabbia delle belve), sarebbe nato l’appellativo di “fauves” per alcuni di quei pittori. Rispetto a quel dipinto del 1905, questo rivela una maggiore complessità di articolazione nella disposizione dei vegetali che prelude alle Giungle più tarde.
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I rappresentanti delle potenze straniere vengono a salutare la repubblica francese in segno di pace
1907
olio su tela; 130 x 161
Parigi, LouvreEsposta al Salon des Indépendants del 1907, l’opera ritrae una scena che sembra modellata su una fotografia di cerimonie ufficiali, che, forse, ha l’intento di celebrare il giovane regime repubblicano francese (seguito al II Impero e alla Comune del 1871) e la volontà di pace della nazione francese, simboleggiata dai rametti di ulivo in mano ai vari capi di Stato e nei vasi in primo piano, ciascuno con una scritta: «Travail», «Liberté», «Fraternité». Tra i sovrani e i capi dei vari paesi, compresi quelli asiatici e africani, posti sotto un baldacchino imbandierato, si identificano lo zar Nicola II (in uniforme chiara), l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe (il vecchio canuto alle spalle dello zar), il re d’Italia Vittorio Emanuele III (dall’inequivocabile bassa statura) che rendono omaggio alla figura della Repubblica francese con scudo e berretto frigio, che sta per incoronare uno dei personaggi (forse il presidente francese Armand Fallières, eletto nel 1906). Rousseau ricorda, nell’intervista ad Alexandre del 1910, che le persone che avevano visto il quadro esposto al Salon des Indépendants correvano a stringergli la mano: «E sapete perché? Perché era proprio il momento della conferenza dell’Aja [la conferenza per la pace del 1907] e io non ci avevo pensato». L’atmosfera generale del dipinto è piuttosto naïf, nella resa dello sfondo della città e nei singoli ritratti degli statisti, che come figurine appiattite si raggruppano da un lato. Probabilmente Rousseau doveva avere avuto presente l’accademico Napoleone III che riceve gli ambasciatori del Siam di Gérome, a tal punto che sperava, per la propria tela, un acquisto da parte dello Stato. Fu invece ritrovata da Picasso nella bottega di un rigattiere nel 1910.
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L’incantatrice di serpenti
1907
olio su tela; 169 x 189
Parigi, Musée d'OrsayEsposta al Salon d’Automne del 1907 insieme ad altri tre paesaggi, la tela rappresenta uno dei più felici approdi di tutta la produzione di Rousseau: il tema esotico è risolto in una visione paesistica assai complessa per i diversi piani che si sovrappongono uno all’altro e per la singolare illuminazione lunare che colpisce la vegetazione e si riflette sull’acqua. L’idea di un’opera così straordinaria, dove particolarmente misteriosa e seduttiva risulta la figura nera dell’incantatrice, deriva da una commissione della madre del pittore Robert Delaunay, amico dell’artista, la quale, durante l’estate del 1907 aveva raccontato a Rousseau dei suoi viaggi in India, decidendo poi di ordinare un dipinto che rievocasse quei ricordi esotici. Il personaggio scuro, come in pochi altri casi, non è ridotto a una minuscola figura e vive in armonia con gli animali che lo circondano; le piante che costeggiano il fiume o lo stagno hanno delle dimensioni plausibili e proporzionate. Dopo la morte della signora Delaunay, la tela entrò a far parte della collezione del figlio Robert e di sua moglie Sonia. Nel 1922, essendo costretti a venderla ma consapevoli della sua importanza, i coniugi Delaunay ne proposero l’acquisto al famoso sarto e collezionista Jacques Doucet a condizione, però, che fosse legata al Louvre. Incoraggiato da André Breton, Doucet la comprò, e oggi la tela è uno dei gioielli del Musée d’Orsay.
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La musa ispira il poeta II
1909
olio su tela; 146 x 97
Basilea, KunstmuseumIl dipinto, inseribile nella serie dei ritratti-paesaggi, è la seconda versione (la prima, datata sempre 1909, è al Museo Pusckin di Mosca) del doppio ritratto del poeta Apollinaire con la sua musa ispiratrice, ossia la pittrice Marie Laurencin, legati all’epoca da una relazione sentimentale. Nel passaggio dalla prima alla seconda versione, oltre alle variazioni nella fisionomia dei personaggi, risultano consistenti, anche se poco vistosi, i cambiamenti che riguardano la cornice vegetale, in particolar modo i fiori in primo piano, che nella prima versione erano delle violacciocche invece di garofani, ma che avevano essenzialmente la funzione di correggere la prospettiva dei piedi e dei tronchi d’albero. Rousseau aveva conosciuto Apollinaire nel 1906, tramite lo scrittore Alfred Jarry, e, in occasione del ritratto, aveva stabilito con lui un intenso carteggio dove si possono ripercorrere tutte le fasi del dipinto e risalire anche ai metodi di lavoro di Rousseau, confermati anche da ricordi diretti di Apollinaire: «Mi misurò il naso, la bocca, gli orecchi, la fronte, le mani, il corpo al completo, trasferendo poi molto diligentemente tali misure sulla tela, dopo averle ridotte alle proporzioni del telaio. Durante tutto quel tempo, per svagarmi, dato che posare è una gran noia, mi cantava canzoni della sua giovinezza».
Cavallo aggredito da un giaguaro
1910Acquistato per cento franchi dal noto mercante A. Vollard e arrivato poi agli Schukin di Mosca, il dipinto è assimilabile alla serie delle Giungle, in particolare a Negro assalito da un giaguaro dello stesso 1910. La scena, a dire il vero un po’ grottesca, vista la totale assenza di drammaticità, è immersa, come al solito, nelle griglie fitte della vegetazione, dove questa volta ritroviamo pochi fiori e soprattutto poche macchie di colore a interrompere la monotonia del verde del fogliame a eccezione del rosso-arancio (dei fiori e del giaguaro) e del grigio–bianco del cavallo che guarda stupito davanti a sé senza scomporsi. Il giaguaro, senza volume e visto di schiena mentre aggredisce il cavallo, ha probabilmente sostituito il leone della prima idea del quadro, come si ricava da una lettera del pittore a Vollard in cui dice che stava apprestandosi a dipingere “un combattimento fra leone e cavallo”. I due animali non sembrano vivere in armonia con le piante che li circondano, troppo grandi e avviluppate. Se ne ricava una sensazione di fredda astrazione e di scenografia finta e irreale. Come scrive Robert Delaunay nel 1920: «Rousseau si colloca accanto a quei maestri che annunciarono l’arte moderna […] Il quadro era per lui una superficie su cui proiettava il suo pensiero fatto di elementi plastic».
Il sogno
1910Ultimo capolavoro della sua carriera, venne esposto agli Indépendants del 1910, e così descritto dall’amico Apollinaire: «Su un divano 1830 dorme una donna tutta nuda. Tutto intorno urge una vegetazione tropicale abitata da scimmie e uccelli del paradiso e, mentre passano tranquilli un leone e una leonessa, un negro – figura misteriosa – suona il flauto». Il divano, che stupì i contemporanei, per Rousseau costituiva un particolare realistico, in una lettera al critico A. Dupont, il pittore scrive: “La donna assopita sul divano sogna di essere trasportata nella foresta, ascoltando il suono dello strumento suonato dall’incantatore di serpenti. È così spiegata la presenza del canapè in questo quadro”. In realtà il dettaglio del divano decontestualizzato possiede un fascino metafisico e surrealista, accresciuto dalla complessità del paesaggio tropicale, per dipingere il quale il pittore pare abbia usato cinquanta verdi diversi. In linea con il filone ottocentesco francese di Delacroix, Ingres fino a Gauguin, Rousseau realizzò sistematicamente scene esotiche dal 1904 al 1910, anticipate già nel 1891 dalla spettacolare tela Sorpresa!, ispirandosi, oltre che a illustrazioni di album e libri, soprattutto alle piante esotiche viste dal vero, nelle serre del Jardin des Plantes di Parigi, come lui stesso rivelò in un’intervista. La donna del Sogno, invece, ritratta nella postura della Maja desnuda di Goya, rinvia certamente all’Olympia e al Déjeuner sur l’herbe di Manet.
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Negro assalito da un giaguaro
1910
olio su tela; 144 x 162,5
Basilea, KunstmuseumIl piccolo gruppo centrale, che quasi scompare nell’immensità rigogliosa della foresta, deriva da una pagina d’album dedicato alle bestie selvagge (Bêtes sauvages) già appartenuto all’artista, dove si vedeva una fotografia intitolata Giovane giaguaro con guardiano. La complessa struttura dello spazio e la distribuzione dei piani ottenuta per mezzo della vegetazione fanno supporre una cronologia tarda, in analogia con lo stile dei quadri di giungle eseguiti dopo il 1907. Racconta Ardengo Soffici, che aveva conosciuto Rousseau a Parigi tra il 1903 e il 1910, che l’artista per dipingere le verdi griglie popolate da scimmie e animali feroci, delineava a matita tutta la vegetazione tropicale, poi stendeva uno per volta oltre ventidue verdi ripulendo sempre la tavolozza. Le foglie (di quercia, cactus, palma, agave e altre) erano state raccolte in boschi e giardini e venivano riprese dal vero nello studio e copiate attentamente una per una sulla tela. Questi paesaggi rigogliosi e “astratti” di Rousseau interessarono non solo l’avanguardia postimpressionista, ma anche l’Art Nouveau e i cubisti, non certo, però, per questa meticolosità realista. Le forme e i volumi risultano intuitivi, la luce e i colori irreali, la prospettiva scorretta: con l’incalzare delle avanguardie, il tentativo di preciso realismo nella resa del dato naturale entrerà, dunque, inconsapevolmente, ma a pieno titolo, nella definizione di “modernità”.