Domenichino: biografia
Nato a Bologna nel 1581, Domenico Zampieri detto il Domenichino si dedica inizialmente a studi di carattere umanistico. In seguito frequenta per un breve periodo lo studio del Calvaert, prima di trasferirsi, intorno al 1595, presso l’Accademia degli Incamminati, dove Ludovico e Agostino Carracci diventano le sue principali guide. Nel 1602 lascia Bologna per trasferirsi a Roma, dove entra nella bottega di Annibale Carracci. Dopo i primi dipinti, databili fra il 1603 e il 1604, Domenichino si dedica soprattutto all’affresco: grazie al cardinale Girolamo Agucchi, ottiene la prima commissione pubblica a Roma per i tre affreschi nella chiesa di Sant’Onofrio (1604-1605); per i Farnese partecipa ai lavori di completamento della decorazione della Galleria a palazzo Farnese (1604-1605); inizia nel 1608 l’affresco con la Flagellazione di sant’Andrea nella chiesa di San Gregorio al Celio. Nel 1609 è a Grottaferrata per decorare la Cappella dei santi fondatori nell’abbazia di San Nilo, terminata l’anno successivo. Partecipa con la bottega di Annibale Carracci, nel 1609, alla decorazione ad affresco del palazzo Giustiniani a Bassano di Sutri (Viterbo). Le prime commissioni indipendenti arrivano all’inizio del secondo decennio del secolo, con la decorazione della cappella Polet in San Luigi dei Francesi (1612) e La comunione di san Girolamo (Musei vaticani) del 1614. Grazie a Giovanni Battista Agucchi il Domenichino riceve l’incarico di eseguire una serie di paesaggi ad affresco nella villa Aldobrandini a Frascati (1616-1618). Nel 1617, dopo aver stipulato il contratto per la decorazione della cappella Nolfi nel duomo di Fano, l’artista lascia Roma, fermandosi a Bologna per qualche mese prima di stabilirsi a Fano nel 1618. Sebbene ritorni Bologna l’anno successivo, egli parte nuovamente per Roma nel 1621 in coincidenza con l’elezione di Alessandro Ludovisi al papato come Gregorio XV. Domenichino è nominato architetto generale della Camera apostolica. A partire dalla fine del 1622 si registrano i primi pagamenti all’artista per gli affreschi della chiesa di Sant’Andrea della Valle. Nel frattempo dipinge pale d’altare per varie chiese romane, compresa quella per San Pietro, Il martirio di San Sebastiano (1625-1630), ora in Santa Maria degli Angeli, e gli affreschi di San Carlo ai Catinari (1628-1630). Nel 1630 il pittore si reca a Napoli per decorare la più importante cappella della città, la cappella del Tesoro in San Gennaro. Nell’estate del 1634 lascia precipitosamente Napoli e si rifugia a Frascati presso gli Aldobrandini, ma dopo molte insistenze, all’inizio dell’anno successivo fa ritorno nella città partenopea per proseguire i lavori che proseguiranno fino alla sua morte, avvenuta nell’aprile del 1641.
Domenichino: le opere
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Morte di Adone
1603-1604
affresco staccato; 174 x 330
Roma, Palazzo FarneseIl dipinto murale si trovava, sino al 1820 circa, nella Loggia del Giardino Farnese, ossia in un piccolo casino sul bordo del Tevere circondato da un giardino segreto fatto costruire dal cardinale Odoardo (1572-1626) per il suo grande palazzo romano. Collegato con l’oratorio e la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e della Morte, sull’altro lato della Via Giulia, l’edificio, costruito tra il 1602 e il 1603, fu denominato “Casino della morte”. Una delle prime opere eseguite a Roma da Domenichino, su incarico di Annibale Carracci, la decorazione del casino comprendeva, oltre alla Morte di Adone, i riquadri con Apollo e Giacinto e con Narciso. Concepita come “quadro riportato” per la decorazione del soffitto della Loggia, la Morte di Adone si ispira, come le altre due scene, alle Metamorfosi e ai Fasti, di Ovidio e rappresenta la leggendaria nascita dell’anemone dalla ferita mortale del giovane cacciatore amato da Venere, che compare al centro della composizione con le braccia alzate. Anche le altre due scene alludono alla nascita di due fiori, rispettivamente del narciso e dell’iris. Forse allusivi ai tre gigli dell’impresa Farnese, i temi ovidiani ben si adattavano al luogo, in cui erano coltivate molteplici qualità di fiori.
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La vergine e l'unicorno
1604-1607/1608
affresco
Roma, palazzo Farnese, galleriaSecondo il Bellori, Annibale Carracci apprezzò ben presto le doti di Domenichino, che egli aveva chiamato a decorare il “Casino della morte” nel giardino di Palazzo Farnese, e lo chiamò come collaboratore per la decorazione della Galleria del Palazzo. La decorazione delle pareti della Galleria non ebbe inizio prima del 1603 e fu probabilmente portata a termine nel 1607-1608, su cartoni di Annibale. Malgrado non sia facile riconoscere la mano dei diversi aiutanti del maestro bolognese, a Domenichino è tradizionalmente attribuita l’esecuzione della Dama con il liocorno, emblema, quest’ultimo, della famiglia Farnese. La sapienza compositiva della scena, ambientata in un paesaggio, si distacca dalle incertezze ancora visibili nel Casino della morte, elemento che ha fatto pensare all’esistenza di un cartone di mano di Annibale.
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Cardinale Girolamo Agucchi
1604-1605
olio su tela ; 141 x 111
Firenze, UffiziIgnorato dalle fonti antiche, il ritratto del cardinale Girolamo Agucchi va collocato al primo periodo di residenza del pittore presso casa Agucchi, protrattosi dal 1604 al 1608 circa. Per il cardinale, e per suo fratello Giovan Battista, entrambi, in momenti diversi, maggiordomi presso gli Aldobrandini, il pittore eseguì vari quadri di paesaggio e di soggetto religioso, nonché gli affreschi per la chiesa romana di Sant’Onofrio tra il 1604 e il 1605. In questo dipinto, eseguito tra il giugno 1604, quando Girolamo fu creato cardinale, e il 27 aprile 1605, data della sua morte, Domenichino si cimenta nel genere del ritratto, rifacendosi alla tradizione raffaellesca.
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Paesaggio con san Girolamo
1605-1610 c.
olio su tavola; 44 x 59,8
Glasgow, Glasgow Art Gallery and MuseumIl dipinto si caratterizza per la singolare scelta del supporto, la tavola, in luogo del consueto rame, generalmente impiegato dal pittore per i dipinti di piccole dimensioni. Tra le opere di paesaggio più riuscite di Domenichino, la tavola mostra sulla sinistra san Girolamo secondo un’iconografia consolidatasi tra fine Cinque e inizio Seicento. La vita del santo è proposta come exemplum cristiano: dedito alla vita monastica, alla castità, devoto ai santi e in particolare alla Vergine e alla sua Immacolata Concezione, egli fu l’autore della “Vulgata”, la traduzione latina del Nuovo Testamento adottata dalla chiesa di Roma. Nel dipinto è infatti mostrato il momento in cui Girolamo scrive, spinto dall’ispirazione divina. La figura del grosso leone, che, secondo una leggenda apocrifa fu guarito da Girolamo e gli rimase fedele, è derivata da una xilografia di Tiziano, confermando l’attenzione per l’arte veneziana nella pittura di paesaggio dei Carracci e di Domenichino.
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Incontro di san Nilo e Ottone III
1608-1609
affresco
Grottaferrata, abbazia, cappella dei santi fondatoriIl dipinto fa parte del primo grande ciclo decorativo eseguito dal giovane Dominichino, su commissione del cardinale Odoardo Farnese, che lo scelse dietro suggerimento di Annibale Carracci. Il pittore ideò la totalità dell’ambiente, non unicamente le parti dipinte. Nella scena, Domenichino si richiama con evidenza a Raffaello, e in particolare all’affresco delle Stanze vaticane raffigurante l’Incontro di Attila e Leone I, semplificandone però la struttura. Secondo il racconto riportato nella vita di san Nilo, l’imperatore Ottone gli avrebbe recato visita nel suo convento di Serperi e lo storico incontro fu raffigurato da Domenichino nella scena maggiore della parete orientale dell’aula contigua alla chiesa, dove si trova la porta di accesso alla cappella. Il corteo si snoda sullo sfondo di un paesaggio collinare, sulla sinistra appare il santo, accompagnato da un piccolo gruppo di religiosi. Secondo il Bellori, nel personaggio vestito di verde sulla destra, raffigurato mentre scende da cavallo, sarebbe da identificarsi il ritratto dell’Agucchi. L’abbraccio tra san Nilo e Ottone III è raffigurato sull’estrema sinistra, per adattare la composizione alla visione laterale di chi entra in cappella dalla chiesa.
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La comunione di san Girolamo
1614
olio su tela; 419 x 256
Città del Vaticano, Musei vaticaniIl dipinto prende spunto da una lettera dell’inizio del Trecento, che si riteneva scritta dal successore del santo, Eusebio da Cremona. Intesa a glorificare la vita di Girolamo, la lettera narra i particolari leggendari della sua morte, che si riteneva avvenuta all’età di novantasei anni, nello stato di verginità e con il corpo consunto da numerose privazioni. In realtà nessuno di questi particolari corrisponde a verità, e l’inattendibilità della lettera fu dimostrata, tra gli altri, da Erasmo e Baronio. Il tema riscosse comunque una certa fama nel corso del Seicento. Eseguito per l’altare maggiore di San Girolamo della Carità, dove Filippo Neri aveva fondato il suo oratorio, il dipinto prende a modello la tela dal medesimo soggetto eseguita da Agostino Carracci per la chiesa bolognese di San Girolamo alla Certosa, e fu cominciato nel 1612, dopo una lunga preparazione testimoniata da una grande quantità di disegni. Rispetto al dipinto di Agostino, Domenichino inverte la composizione e diminuisce il numero dei personaggi. Il centro simbolico della tela è l’ostia, a sottolineare, in linea con i dettami del Concilio di Trento, la reale presenza di Cristo nel sacramento della comunione.
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La caccia di Diana
1616-1617
olio su tela; 225 x 320
Roma, galleria BorgheseIl dipinto fu commissionato dal cardinale Pietro Aldobrandini per la sua galleria, dove doveva apparire accanto ai Baccanali di Bellini, Tiziano e Dosso, portati dal cardinale da Ferrara. Scipione Borghese lo volle però per sé e lo fece prelevare con la forza dallo studio del pittore, che fu trattenuto per alcuni giorni in prigione. L’inedito episodio raffigurato dal pittore bolognese è tratto da un passo dell’Eneide (V, 485-518) in cui Virgilio narra la gara svoltasi tra gli uomini di Enea per colpire una colomba in volo legata all’albero della nave, qui trasferita in un contesto femminile. A cimentarsi nella prova di abilità sono infatti la dea Diana e le ninfe del suo seguito. La disposizione romboidale delle figure, a cui lo spettatore è introdotto dalla ninfa nuda in primo piano, che guarda verso l’esterno, è immersa in un paesaggio lacustre, memore della pittura di Tiziano e Veronese.
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La Sibilla Cumana
1616-1617
olio su tela ; 123 x 94
Roma, galleria BorgheseIl dipinto fu eseguito per la famiglia Borghese tra il 1616 e il 1617, e raffigura con tutta probabilità la Sibilla Cumana, una delle donne che, in emulazione della mitologica sibilla di Apollo, erano famose per i propri oracoli. A partire dall’alto Medioevo le Sibille cominciarono ad essere associate ai profeti vetero-testamentari e furono considerate messaggere di Cristo. La sibilla di Domenichino, memore della santa Cecilia di Raffaello (Bologna, Pinacoteca nazionale) e delle figure femminili di Guido Reni, ha accanto a sé una viola da gamba, mentre sullo sfondo si scorgono una pianta di alloro, sacra ad Apollo, e la vite, associata sia a Bacco che a Cristo. Il fraseggio musicale dello spartito che ella tiene in mano, benché non identificato, si accosta ad alcune composizioni contemporanee al pittore, sottolineando il profondo interesse per la musica di Domenichino, ricordato dalle fonti.
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Santa Cecilia
1617-1618 c.
olio su tela; 159 x 117
Parigi, LouvreTra le opere più famose e più riprodotte del Domenichino, la Santa Cecilia è documentata nella collezione Aldobrandini nel 1623, e fu probabilmente eseguita nel 1617-1618, dopo la partenza da Roma del pittore. Il dipinto è un omaggio alla Santa Cecilia di Raffaello, osservata da Domenichino dopo il ritorno a Bologna, nell’estate del 1617. Il culto di Cecilia si diffuse particolarmente nella prima metà del Seicento, in seguito al ritrovamento del corpo della martire durante gli scavi condotti nella basilica romana di Santa Cecilia in Trastevere, avvenimento celebrato con la collocazione della statua della santa di Stefano Maderno nell’altare maggiore della chiesa nel 1600. Secondo la tradizione, al momento del rinvenimento, Cecilia indossava un turbante, che sarebbe divenuto uno degli attributi più comuni nella sua raffigurazione. Il dipinto di Domenichino riflette la ben nota passione del pittore per la musica: la santa è intenta a suonare una “viola bastarda” a sette corde, mentre il puttino regge uno spartito di musica contemporanea.
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Rimprovero ad Adamo ed Eva
1623-1625 c.
olio su rame; 95 x 75
Grenoble, Musée de GrenobleDonato dal celebre architetto André le Nôtre a Luigi XIV nel 1693, il dipinto fu una delle poche opere eseguite da Domenichino mentre era impegnato nella decorazione della chiesa romana di Sant’Andrea della Valle. Eseguita su rame con una forte attenzione ai contrasti cromatici, l’opera ricorda la produzione di Elsheimer, e, soprattutto di Paul Brill. Il tema raffigurato è ispirato a una particolare interpretazione medievale della storia biblica secondo cui Dio Padre incolpò Adamo di aver mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza, qui raffigurato da un fico e non da un melo. Adamo incolpò poi Eva, che, a sua volta, accusò il serpente. La figura di Dio Padre sorretto da cherubini è una citazione michelangiolesca dalla volta della Sistina, mentre gli animali in primo piano simboleggiano la coesistenza pacifica (il leone e l’agnello, da Isaia) e la lussuria (il cavallo, da Geremia).
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Intercessione della Vergine
1631
affresco
Napoli, cattedrale, cappella del Tesoro di San Gennaro, cupolaLa chiamata a Napoli di Domenichino per decorare la cupola della monumentale cappella del Tesoro della cattedrale di Napoli si colloca al termine di una complessa e intricata vicenda. A partire dal 1616, infatti, vari pittori si avvicendarono nell’incarico, tra cui il Cavalier d’Arpino, Guido Reni e Battistello. Nel 1630 fu contattato Domenichino, che si trasferì l’anno seguente a Napoli. Il programma iconografico della decorazione si incentra sulle storie di san Gennaro, mentre nei pennacchi sono raffigurate scene allegoriche celebrative della città. Il pennacchio a sinistra dell’ingresso, terminato nel 1633, raffigura La Vergine intercede presso Cristo per la città di Napoli. Visualizzazione dello spiccato culto mariano della città partenopea, l’affresco mostra in primo piano la personificazione della Penitenza, che calpesta la tigre, simbolo del peccato, mentre al centro, la Preghiera porge l’officio della Vergine, lo scapolare domenicano, e il rosario e poggia i piedi su una cartina geografica dell’Italia meridionale. Sull’altro lato compare l’Ardore della fede cattolica che calpesta l’Eresia e san Gennaro con le ampolle del sangue. Il ciclo napoletano costituisce per il bolognese un punto d’arrivo, in cui motivi iconografici e formali sono ormai resi senza innovazioni, e dove la tavolozza appare ormai ridotta.
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Paesaggio con fortificazioni
1634-1635 c.
olio su tela ; 112 x 193
Londra, collezione Sir Denis MahonIl dipinto è ispirato alla Fuga in Egitto di Annibale Carracci, una delle famose lunette Aldobrandini, e fu probabilmente eseguito tra il 1634 e il 1635, quando Domenichino, fuggito da Napoli, fu ospite della famiglia, dapprima a Frascati e poi a Roma. Al tema sacro della composizione di Annibale, Domenichino sostituisce delle scenette di genere, che ricordano le sue opere giovanili. Il perfetto equilibrio dei due gruppi di figure in primo piano, che indicano verso il centro della composizione, i sentieri che si addentrano nell’ambientazione campestre, il gregge di pecore e il complesso fortificato al centro della composizione, tutti elementi sapientemente calibrati e armonizzati, rendono la tela uno dei paesaggi di Domenichino maggiormente lodati dalla critica.