Artemisia Gentileschi: biografia
Figlia di Prudenza Montone e del pittore pisano Orazio Gentileschi, Artemisia fin da bambina si trovò a giocare con i colori del padre e a posare per lui come modella per i suoi dipinti. Fu nello studio romano di Orazio, infatti, che la giovane Artemisia iniziò i suoi studi di arte pittorica che l’avrebbero portata, ben presto, a intraprendere, con grande abilità, una carriera distinta e autonoma che, seppur ostacolata, soprattutto all’inizio, da una certa discriminazione culturale di natura sessuale, la renderà ugualmente una delle più famose pittrici della storia. Nel 1609 Artemisia ritrasse l’amica Tuzia con il figlio per una Madonna col Bambino. La precoce data del 1610 posta nella Susanna e i vecchioni di Pommersfelden (prima opera firmata dall’artista e capolavoro di altissimo livello) indica come da subito la sua personalità creativa si distinse da quella del suo maestro. Il 6 maggio del 1611 accadde quel terribile fatto che segnò drammaticamente la sua vita personale e artistica, contribuendo, inoltre, a far sì che la storiografia contemporanea e la critica successiva si interessassero più alla sua vita e meno alla sua opera, in una connotazione spesso di stampo femminista. Artemisia venne stuprata da Agostino Tassi, pittore di prospettiva che collaborava strettamente con il padre Orazio. Per molto tempo la violenza, avvenuta anche con la complicità dell’amica Tuzia, fu taciuta. Dopo quasi un anno, nel marzo del 1612, si aprì un processo - del quale esistono i documenti che ci tramandano tutti gli atti e le testimonianze - che si concluse con una lieve condanna del Tassi e con l’umiliazione di Artemisia attraverso plurime visite ginecologiche e torture fisiche. Alla fine di tutto ciò, nel novembre dello stesso 1612, Artemisia si trasferì a Firenze costretta dal padre a sposare il fiorentino Pierantonio di Vincenzo Stiattesi. Le opere che dipinse dopo i fatti tragici di questo periodo dimostrano, come tante volte la critica ha sottolineato, particolare drammaticità formale e asprezza realistica, elementi di discendenza caravaggesca che daranno una decisa svolta allo stile ancora classicista delle prime opere. Nel 1612 Artemisia eseguì la famosa Giuditta che decapita Oloferne del Museo Capodimonte di Napoli (di cui eseguirà un’altra versione oggi conservata agli Uffizi), che darà il via alla serie di coraggiose eroine bibliche o mitologiche che saranno spesso protagoniste dei suoi dipinti. A Firenze Artemisia rimase fino al 1620, lavorando sotto la protezione del granduca di Toscana Cosimo II e di Michelangelo Buonarroti il Giovane, il quale, nel 1615, le commissionò l’Allegoria dell’Inclinazione (1615). Nel 1616 Artemisia venne accolta come membro della prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, in quella città dove avrebbe continuato a dipingere molte opere destinate a lasciare un certo influsso sulla pittura locale: Giuditta e la fantesca (1614), Santa Caterina (1614-1615), Minerva (1615), Maddalena penitente (1617) e Giaele e Sisara (1620). Nel 1621 Artemisia sarà di nuovo a Roma, insieme alle figlie e al marito che ben presto, nel 1623, andrà via per sempre. In questo periodo sono documentati due soggiorni importanti dell’artista, uno a Genova dove conobbe Van Dyck e dove eseguì una Lucrezia (1621) e una Cleopatra (1621), e un altro a Venezia. Tornata a Roma dipingerà il Ritratto di gonfaloniere (1622) e il famoso Ester al cospetto di Assuero (1622-1623), stringendo numerosi contatti con artisti caravaggisti italiani e stranieri. Nel 1630, dopo aver terminato il famoso Autoritratto come allegoria della pittura dipinto su commissione di Cassiano dal Pozzo, si trasferì a Napoli dove realizzò molti dipinti, compresa una delle sue pochissime opere a destinazione pubblica: L’Annunciazione (1630) e un ciclo di tele per la cattedrale di Pozzuoli. Nel 1637 Artemisia ricevette l’invito dal re Carlo I a recarsi in Inghilterra per collaborare con il padre Orazio, che si trovava già lì dal 1628. Così la pittrice andò in aiuto del padre ultrasettantenne per terminare il ciclo di nove tele per il soffitto della Queen’s House di Inigo Jones a Greenwich. Il programma iconografico del lavoro della pittrice sarà l’Allegoria della pace e delle arti sotto la corona inglese (1638-1639). Mancato Orazio nel 1641, Artemisia decise di ritornare a Napoli, dove, fino alla fine dei suoi giorni, lavorò incessantemente a nuove e importanti commissioni, come quelle per il collezionista messinese don Antonio Ruffo. Morì a Napoli nel 1652.
Artemisia Gentileschi: le opere
Susanna e i vecchioni
1610Prima opera datata e firmata da Artemisia (a soli diciassette anni), documenta la fase iniziale dello stile della pittrice, ancora evidentemente disciplinato dagli insegnamenti del padre. Il disegno anatomico e la luce chiara e delicata sono elementi appresi dalla pittura di Orazio, mentre già l’accostamento cromatico di giallo-verde, violetto, rosso e grigio-blu, caratterizza l’opera con altri riferimenti, che Artemisia adopererà anche in seguito. Il contorcimento della figura nuda della bellissima Susanna possiede il ritmo “serpentinato” tipico del manierismo e derivato da certe figure della Sistina di Michelangelo come l’Adamo espulso dal Paradiso, dipinto sulla volta. Nonostante questa e altre fonti di ispirazione visiva rintracciate dalla critica, la composizione risulta semplice ed essenziale nel presentare, con taglio verticale, gli elementi protagonisti della composizione senza troppi dettagli paesaggistici, che distoglierebbero l’attenzione dall’inquietudine dell’immagine centrale. La dimensione psicologica della vicenda rappresentata è subito chiara, soprattutto nella posa invadente dei due vecchi che si sporgono dal muretto, incombendo, complici e scuri, sulla bianca Susanna indifesa. Il punto di vista sembra essere tutto femminile, come si evince dallo sguardo sprezzante della giovane donna che, con realistica repulsione, rifiuta le richieste erotiche dei due vecchi.
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Giuditta e la fantesca
1613-1614
olio su tela; 114 x 93,5
Firenze, Palazzo Pitti, Galleria PalatinaL’iconografia del dipinto si riferisce a un momento della storia di Giuditta successivo alla decapitazione di Oloferne, quando l’eroina biblica e la sua ancella stanno per lasciare l’accampamento assiro. L’ambientazione in questo splendido dipinto è quella dell’interno buio della tenda dove le due donne occupano tutto lo spazio verticale e ravvicinato, rivolgendo entrambe lo sguardo e la testa verso destra (fuori dal campo del dipinto,) come richiamate da qualcosa che attira la loro attenzione. La stessa impostazione era stata utilizzata da Orazio Gentileschi nella Giuditta conservata a Oslo, di cui questa sembra essere una derivazione meno meditata e descrittiva ma più austera ed essenziale nel delineare gli elementi fondamentali della narrazione, ossia la complicità delle due figure unite e il senso di sospensione nel dramma. La particolare posa delle due donne ricorda quella delle due figure di Cristo e san Pietro nella Vocazione di san Matteo che Caravaggio aveva dipinto per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma. Sulla datazione e sul luogo di esecuzione del quadro gli studiosi non concordano, avvicinandolo ora al periodo fiorentino ora al periodo romano dell’artista. Si trova comunque citato nell’inventario mediceo fin dal 1637.
IconografiaMaddalena penitente
1617-1620Il soggetto iconografico di Maria Maddalena nel Cinquecento e nel Seicento ebbe una particolare diffusione devozionale, dando origine a una serie di immagini che evidenziavano, nella figura di Maddalena, il delicato equilibrio tra la virtù e la grazia spirituale della conversione e la sensualità della precedente vita peccaminosa. In questo dipinto, firmato sullo schienale della sedia ARTEMISIA LOMI, i due aspetti contrastanti sembrano perfettamente bilanciati: così lo sguardo drammatico e il gesto di rinuncia della mano sinistra che respinge lo specchio, simbolo di vanità, elementi che tradiscono la volontà di sottomissione agli insegnamenti di Cristo, si alternano alla fastosità lussuosa dell’abito dorato, che lascia scoperta la pelle bianca della spalla destra, agli orecchini di perle, alla mano sul cuore, al piede nudo, ai capelli morbidi e luminosi e al ricco rivestimento della sedia, dettagli che sottolineano i piaceri terreni e l’aspetto sensuale della vita. Il dipinto appartiene agli anni fiorentini dell’artista e rivela una particolare capacità tecnica descrittiva nella splendida resa del tessuto dell’abito, impreziosito da bagliori dorati, simile a quello della Giuditta (che si trova pure alla Palatina di Firenze) dipinta dal pittore fiorentino Cristofano Allori, intimo amico di Artemisia. La ricchezza raffinata dei dettagli deriva dall’ambiente fiorentino di Allori e di Federico Cigoli, mentre il dato espressivo e realistico è tipicamente caravaggesco. È stata ipotizzata una committenza dello stesso granduca di Toscana Cosimo II, che avrebbe richiesto alla Gentileschi un dipinto con la Maddalena per la sua consorte granduchessa Maria Maddalena d’Austria.
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Giuditta che decapita Oloferne
1620 circa
olio su tela; 199 x 162,5
Firenze, Galleria degli UffiziLa seconda versione di questo soggetto (la cui prima esecuzione è conservata al Museo di Capodimonte) è senz’altro il dipinto più famoso di Artemisia e l’opera attraverso la quale il nome della pittrice si è diffuso nella storia dell’arte. L’immagine tragica e violenta, dove il sangue zampilla in modo particolarmente cruento, è stata spesso ricondotta alle personali disavventure sessuali che avrebbero influito sullo stato emotivo dell’artista. La firma posta sulla lama della spada (EGO ARTEMITIA / LOMI FEC.) conferma la provenienza fiorentina del dipinto, poiché il cognome paterno “Lomi” verrà da lei adoperato soprattutto nelle opere dipinte a Firenze. Come si legge in una lettera di Artemisia del 1635 scritta a Galileo Galilei, l’opera sarebbe stata eseguita su commissione del granduca di Toscana Cosimo II, ma dipinta probabilmente a Roma dopo il ritorno da Firenze nel 1620. Rispetto alla versione precedente, quest’opera è arricchita di raffinati dettagli, ispirati forse al gusto fiorentino per gli arredi e gli abiti eleganti, come quello di damasco dorato indossato da Giuditta insieme a un prezioso bracciale d’oro. Tutta la composizione, in realtà, appare più equilibrata e simmetrica rispetto alla Giuditta napoletana. Il taglio della scena è meno ravvicinato, e trova una sua centralità nella spada impugnata da Giuditta che fa da perno a tutta la drammatica scena.
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Giaele e Sisara
1620
olio su tela; 86 x 125
Budapest, Szépmüvészeti MùzeumAnche questo dipinto si unisce agli altri di Artemisia che illustrano la storia di coraggiose eroine bibliche, che per liberare il popolo israelita sono pronte a uccidere uomini che sembrano invincibili. Qui il generale Sisara dorme pacificamente, mentre Giaele è già in ginocchio di fronte a lui e sta per sferrare il colpo, sollevando il martello con la destra e puntando il picchetto sulla tempia con la sinistra. Si tratta di un gesto crudo, violento, che Artemisia, risolve con una lieve tensione drammatica. La scena ha un tono pacato, quieto e contemplativo, e il ricordo cruento della Giuditta e Oloferne sembra svanito. Nella scelta di Artemisia ha prevalso l’eleganza e la naturalezza, per armonizzarsi forse con la corte fiorentina per cui fu dipinto il quadro. La firma “ARTEMITIA. LOMI / FACIBAT / M.D.CXX”, che appare in bella vista, incisa sul piedistallo sullo sfondo, conferma infatti una committenza fiorentina, poiché così Artemisia firmava i suoi dipinti toscani. L’eleganza del costume di Giaele ha inoltre attinenza con la produzione toscana della pittrice e diversi critici hanno trovato affinità tra questo dipinto e il modo in cui interpretò lo stesso soggetto l’artista fiorentino Ludovico Cigoli (collezione privata, Firenze), soprattutto nella postura dei due corpi.
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Lucrezia
1620
olio su tela; 100 x 77
Collezione privataL’assonanza stilistica di questo dipinto con la Maddalena di Palazzo Pitti - nella posa e nei tratti del viso - evidenzia la sua vicinanza temporale con l’opera fiorentina, la quale potrebbe essere stata dipinta immediatamente prima di questa Lucrezia, che Artemisia portò con sé quando si recò a Genova nel 1621 per raggiungere il padre. Scegliendo il primo piano e il taglio ravvicinato della figura seminuda di Lucrezia, Artemisia ha voluto accentuare il senso drammatico dell’impresa dell’eroina e della sua decisione di togliersi la vita dopo essere stata violentata. Il fondo scuro che contrasta con la pelle lattea e con la veste candida e il rosso del drappeggio accentua il pathos del suicidio di Lucrezia, virtuosa moglie di Tarquinio Collatino, che sta per pugnalarsi con un coltello. L’azione è congelata nell’immobilità del momento della decisione, nella breve pausa tra la vita e la morte, e lo sguardo accigliato vuol esprimere questo istante drammatico.
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Ester al cospetto di Assuero
1622-1623
olio su tela; 208 x 273
New York, The Metropolitan Museum of ArtLa storia dell’ebrea Ester e del sovrano Assuero è raccontata nel testo originale ebraico dell’Antico Testamento a cui erano state aggiunte delle integrazioni in greco, molto diffuse dopo il Concilio di Trento, che, probabilmente, costituirono la fonte diretta per il dipinto di Artemisia, seguita fedelmente in tutti i dettagli descrittivi della scena dello svenimento. Un’altra fonte da cui la pittrice avrebbe tratto molti particolari e ripreso la struttura compositiva è il dipinto con lo stesso soggetto della bottega del Veronese (oggi conservato al Louvre), che Artemisia avrebbe potuto vedere durante il suo soggiorno veneziano, e dal quale avrebbe tratto anche altri dettagli che poi eliminò dalla composizione. Si tratta della figura di un servo alla base della scalinata e di due versioni di un cane accucciato, elementi visibili come “pentimenti” dall’esame radiografico dell’opera. Ester, abbigliata fastosamente, è in piedi ma in procinto di svenire, e viene sostenuta da due ancelle. Di fronte a lei l’elegantissimo Assuero si prepara a “balzare” dal trono per sorreggere la sua regina, come è scritto nel testo biblico. Tra le due figure c’è un rapporto di pari dignità, non di soggezione di una all’altro, come si ritrova talvolta nella rappresentazione di questa scena, dove Ester è ritratta in ginocchio, in atteggiamento supplice, di fronte al trono innalzato su un podio. Nonostante la perfetta corrispondenza di movimenti dei due protagonisti, nella scena manca forse un rigore compositivo che, viste le molte rielaborazioni del dipinto, fu percepito dalla stessa Artemisia come mancanza di armonia.
IconografiaAutoritratto come allegoria della pittura
1630Questo splendido dipinto viene da molti critici riferito al periodo londinese dell’artista (1638-1640), per delle corrispondenze stilistiche con altre opere eseguite in quegli anni. Il quadro, conservato a Londra, per un’altra parte della critica sarebbe giunto in Inghilterra insieme alla sua autrice che l’avrebbe dipinto, invece, nel 1630 a Roma su commissione di Cassiano dal Pozzo che in una lettera si riferisce proprio a un’opera simile a questa. Egli, mecenate e collezionista di ritratti curiosi, sarebbe stato probabilmente interessato ad acquistare un ritratto di Artemisia in quanto artista donna. La Gentileschi realizzò, dunque, un’immagine che, scardinando i convenzionali autoritratti femminili aristocratici, si pone come personificazione dell’atto stesso del dipingere. Gli attributi che Artemisia esibisce, mentre dipinge con concentrazione, sono gli stessi che caratterizzano la figura allegorica della “Pittura” nell’ Iconologia di Cesare Ripa, che aveva avuto, tra l’altro, una terza edizione, illustrata dal Cavalier d’Arpino e pubblicata a Roma nel 1603. Ed ecco, dunque, Artemisia nelle sembianze femminili della Pittura, con la catena d’oro, la maschera pendente che rappresenta l’imitazione, i riccioli ribelli che sottolineano la frenesia della creazione artistica e l’abito dai colori diversi che alludono alla capacità tecnica e del pittore. Si tratta di un’opera davvero audace e innovativa, eseguita con grande maestria pittorica e intellettuale.
Allegoria della pace e delle arti sotto la corona inglese
1638-1639Dall’epistolario della pittrice sappiamo che aveva rapporti con varie personalità importanti, attraverso le quali cercava anche il supporto di nuovi protettori e committenti. Durante gli anni che Artemisia trascorse a Napoli le arrivò il prestigioso invito da parte del re Carlo I di recarsi alla corte d’Inghilterra, dove già lavorava il padre Orazio. A Londra, Artemisia fu dunque incaricata di terminare gli affreschi del soffitto della Queen’s House di Inigo Jones a Greenwich. Il programma iconografico stabilito dal committente, Allegoria della pace e delle arti sotto la corona inglese, è un tipico esempio di strategia politica di corte, che doveva comunicare ai sudditi un senso di equilibrio e di stabilità, sottolineando, al tempo stesso, il clima di pace e di libera fioritura delle arti inaugurato da Carlo I. Il tondo presenta al centro la Pace, con un ramo d’ulivo in mano, a cui corrispondono in basso Vittoria, fiancheggiata da Fortezza e Concordia. Poi intorno siedono le sette Arti liberali, il trivium alla sinistra della Pace, e il quadrivium alla sua destra. Le figure allegoriche delle Arti sono raffigurate entro quattro riquadri e quattro tondi posti intorno al tondo. La scarsità documentaria per questi lavori non aiuta a rintracciare la paternità delle singole figure delle diverse tele, dove sembra che Artemisia abbia offerto una compartecipazione all’impresa già iniziata da Orazio.
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Davide e Betsabea
1640
olio su tela; 265,4 x 209,5
Columbus (Ohio), Museum of ArtIl momento della vicenda biblica scelto da Artemisia è quello più consueto e popolare in cui Davide nota Betsabea, moglie del soldato ittita Uria, mentre fa il bagno in giardino. La scena è incentrata sulla bellezza della donna che, con il candore della sua pelle e del panneggio, crea una nota luminosa che permea tutto il dipinto, contagiando in modo particolare l’ancella che porge il vassoio di gioielli, elegante e armoniosa nella sinfonia cromatica di azzurro e oro del vestito. La costruzione della scena è piuttosto sofisticata rispetto alle altre opere di Artemisia, definita da direzioni orizzontali (la balaustra), verticali (lo spigolo del palazzo di Davide) e diagonali (dal gesto del braccio di Davide a quelli delle donne) che si equilibrano perfettamente. L’attribuzione del dipinto ad Artemisia è stata ormai accettata dalla maggior parte degli studiosi, mentre esistono diverse opinioni riguardo al momento in cui fu eseguito: se poco prima della partenza per Londra, nel 1638-1639, o se subito dopo il suo ritorno a Napoli intorno al 1640. Si tratta comunque di un periodo maturo, in cui molta attenzione viene rivolta alla finezza compositiva e alla costruzione della scena.
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Lot e le figlie
1640
olio su tela; 230,5 x 183
Toledo (Ohio), Museum of ArtLa tela, che fino al 1984 era stata attribuita a Bernardo Cavallino, possiede delle evidenti affinità stilistiche con altre opere del periodo napoletano di Artemisia, in particolare con il Davide e Betsabea di Columbus: nella grandiosità della composizione, nelle tonalità cromatiche, nelle fisionomie delle donne e nel trattamento dei panneggi. L’opera si distingue per la sua eleganza e precisione compositiva, che rientra in quella tendenza all’equilibrio e a quel ritorno agli ideali classici tipici della pittura napoletana del quarto decennio del Seicento. Siamo di fronte, inoltre, a un esempio pittorico di perfetta concisione narrativa, in cui attraverso i gesti e le pose delle tre figure si riesce a evocare il contenuto dell’intera storia. Il racconto è quello biblico, tratto dalla Genesi, in cui si narra di come, dopo la distruzione di Sodoma e Gomorra, Lot venne ubriacato dalle sue due figlie, che decisero di giacere con lui per assicurargli dei discendenti maschi. La rappresentazione di questa scena ebbe molto successo nella pittura del Cinquecento e del Seicento, poiché offriva il pretesto per immaginare e dipingere una situazione erotica e seducente. Artemisia riesce, invece, ad alludere con grande equilibrio e misura agli eventi senza mostrarli del tutto, cogliendo il momento in cui si inizia a percepire l’ebbrezza di Lot, il quale con lo sguardo poco vigile e l’equilibrio del corpo incerto, cinge con il braccio una delle figlie.
Iconografia