Tiziano: biografia
La sua educazione artistica inizia a Venezia presso la bottega dei Bellini (Gentile e poi Giovanni). Tra il 1508 e il 1509, come pittore autonomo, dipinge accanto a Giorgione le facciate del Fondaco dei Tedeschi. Intorno al 1510 è già un artista affermato e riceve commissioni per importanti pale d’altare (Pala di san Marco, Santa Maria della Salute). Nel 1511 esegue gli affreschi della Scuola del Santo a Padova. In cambio della sansaria del Fondaco dei Tedeschi, una sorta di pensione che il Consiglio dei Dieci concede agli artisti più valenti, nel 1513 offre i suoi servigi alla Serenissima, diventando il pittore ufficiale della Repubblica. Numerose sono le commissioni di opere a tema profano e dai complessi significati eseguite per la nobiltà del tempo, come il Concerto campestre ora al Louvre e Amor sacro e amor profano della Galleria Borghese. Nel 1516 comincia a lavorare per Alfonso I d’Este, che nel 1518 gli commissiona la decorazione del “camerino d’alabastro”; lo stesso anno porta a termine la pala dell’altare maggiore di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia. Seguono la Pala Pesaro (1519-1526), sempre per i Frari, e il Polittico Averoldi (1520-1522) per la chiesa bresciana dei Santi Nazaro e Celso. Richiesto dalle maggiori corti italiane, anche per la sua capacità di ritrattista, lavora a Mantova per i Gonzaga e poi per i duchi di Urbino. Nel 1542 inizia un lungo e sofferto rapporto con la famiglia del pontefice Paolo III e, tre anni dopo, si reca a Roma dove resterà fino al giugno del 1546. Dopo aver ritratto per la prima volta Carlo V in occasione della sua incoronazione (1530), diventa uno dei pittori prediletti non solo dell’imperatore ma anche di suo figlio Filippo II, futuro re di Spagna. Per anni invierà a Madrid la sua migliore produzione, lavorando in modo quasi esclusivo per gli Asburgo. Dalla metà degli anni Quaranta l’artista compie una svolta nella sua arte elaborando composizioni sempre più drammatiche e, suggestionato dal manierismo romano, dilatando plasticamente le figure. Progressivamente l’uso del colore si fa più libero e sciolto giungendo a una stesura attuata per brevi tocchi di pennello (Coronazione di spine di Monaco, 1570-1576; Supplizio di Marsia di Kromeríz, 1570-1576), alle soglie del non finito.
Per saperne di più:
Michele Polverari
La Pala Gozzi di Tiziano. La visione e la veduta
Art e Dossier, n. 30, dicembre 1988
Maurizio Calvesi,
L'Amor sacro e profano di Tiziano. Un amore per Venere e Proserpina
Art e Dossier, n. 39, ottobre 1989
Augusto Gentili
Cinquecento candeline. Forse
Art e Dossier, n. 47, giugno 1990
Tiziano: le opere
Archivio Giunti
Concerto
1507-1508
olio su tela; 86,5 x 123,5
Firenze, palazzo Pitti, Galleria PalatinaUn giovane gentiluomo sta suonando la spinetta ma viene improvvisamente interrotto dalla presenza alla sua destra di un chierico che posandogli una mano sulla spalla lo costringe a voltarsi interrompendo la sua attività. Il chierico è anch’egli un musico (vediamo parte del suo strumento) che forse fino a pochi istanti prima partecipava all’esecuzione. Il suo viso, serio e dispiaciuto, sembra mostrare che è suo malgrado costretto ad agire in quel modo quasi la sua funzione sia quella, morale, di richiamare il gentiluomo non tanto al tempo reale quanto al tempo diversamente sublimato della meditazione religiosa, cui parrebbe alludere l’abito religioso dell’uomo. Ma nel fare questo il chierico sottrae il musico al rapporto col giovane elegante dal cappello piumato, le cui vesti alludono invece al dominio assoluto del tempo mondano sull’uomo. Tuttavia sotto il velo del suo singolare allegorismo, non si può escludere che il dipinto discuta anche una questione di teoria e pratica musicale: il contrasto tra musica religiosa e musica profana.
Archivio Giunti/Foto Rabatti-Dominigie, Firenze
Flora
1515-1517
olio su tela; 79,7 x 63,5
UffiziLa rappresentazione della donna in termini di celebrazione matrimoniale passa assai spesso per il travestimento mitologico. Il travestimento più frequente e appropriato chiama in causa Flora, moglie di Zefiro, sinonimo di concordia maritale e di fecondità naturale secondo la tradizione ovidiana (Fasti V). Essa è riconoscibile dall’offerta del mazzetto primaverile di fiori, è florida e ha all’anulare della mano destra, quella col mazzolino, l’anello della promessa, celato/evidenziato in mezzo alle foglie e ai fiori. L’indice e il medio aperti a forbice della mano sinistra sono diretti verso il ventre, e paiono annunciare l’imminente “taglio” del cinto virginale.
IconografiaArchivio Giunti
L’uomo dal guanto
1520-1523
olio su tela; 100 x 89
Parigi, LouvrePer L’uomo dal guanto, che va con ogni probabilità riferito alla corte gonzaghesca di Mantova, sono state proposte diverse identificazioni, con relative datazioni. Il giovane gentiluomo si presenta abbigliato con sobria eleganza, lo sguardo teso e sfuggente nel volto dal mento debole e dai baffetti radi, nella mano nervosa si leggono le vene; tanta costretta austerità appare tuttavia attenuata dalla raffinatezza degli accessori, il pendente, l’anello con lo stemma e, naturalmente, gli eponimi guanti di morbida pelle. L’uomo dal guanto deve essere collocato al culmine di una serie di ritratti caratterizzati dal raffinato attributo dei guanti. Tutti ostentano la “sprezzatura” spiegata e prescritta nel celebre Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione: un’eleganza che è soprattutto disinvoltura, una grazia artificiosa che non mostra l’artificio di cui è frutto.
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Presentazione di Maria al Tempio
1534-1538
olio su tela; 345 x 775
Venezia, Gallerie dell’AccademiaIl grande telero della Presentazione di Maria al Tempio è una delle rare opere di Tiziano eseguite per una Scuola Grande, ossia per una delle confraternite maggiori di Venezia. Maria sale al Tempio in conformità all’usanza ebraica, ma la sua figuretta solitaria sulle scale brilla già della divina luce di una nuova era. La contrapposizione del cristianesimo all’ebraismo e al paganesimo è simbolicamente sottolineata dalle due presenze in basso a destra di un torso classico, opportunamente mutilo a rappresentare l’ormai inarrestabile degrado del mondo pagano; dall’altra della vecchia ebrea che vende offerte rituali per il tempio ed è appunto immagine della persistenza ma anche del progressivo esaurimento della cultura e della religione ebraica. Se il comportamento rispettoso di Maria e dei suoi genitori dichiara in ogni caso la continuità tra mondo ebraico e mondo cristiano, l’unica continuità tra questo e il mondo pagano è stabilita dall’architettura ispirata alle opere del Serlio, amico di Tiziano stesso. Nella scena sono rappresentati i massimi funzionari della Scuola della Carità.
IconografiaVenere di Urbino
1537-1538Questa “donna ignuda”, dipinta nel 1538 per Guidubaldo della Rovere, è la celebre Venere di Urbino, che alcuni hanno interpretato come sublimante allegoria di un legame matrimoniale in termini di neoplatonismo e nel segno della Venere celeste, altri come ritratto esplicitamente erotico di un’anonima cortigiana veneziana. La modella della Venere è la stessa della cosiddetta "Bella " di Palazzo Pitti, che si presenta con gli attributi simbolici della giovane sposa: la collana e la cintura a catena, la pelliccetta di martora, in un dipinto che sottolinea l’importanza della dimensione erotica all’interno del matrimonio. Ricordando che Guidubaldo aveva sposato nel 1534 per ragioni politiche Giulia Varano da Camerino, allora fanciulla di dieci anni, possiamo facilmente supporre che La bella sia il ritratto “cerimoniale” della sposa. Qualche anno dopo Guidubaldo ritenne opportuno persuadere e istruire al connubio quella sposa ancora adolescente, fornendole un modello appropriato e culturalmente inattaccabile, ed ecco che Tiziano dipinse la Venere, capolavoro di erotismo ma anche di elegante travestimento.
IconografiaArchivio Giunti
Il cardinale Pietro Bembo
1539-1540
olio su tela; 94,5 x 76,5
Washington, National GalleryPietro Bembo, umanista di rilievo assoluto e cultore d’arte antica e moderna, fu amico personale di Tiziano ed ebbe con ogni probabilità un ruolo determinante nella prima attività del pittore attraverso l’esposizione dei temi d’amore e musica, in termini di allegoria neoplatonica, affidata ai dialoghi degli Asolani (1505) e rispecchiata in numerose opere del pittore. Il ritratto di Pietro Bembo fu eseguito dopo che il letterato fu eletto cardinale nel 1539. È un’immagine di essenzialità assoluta, tipica del “ritratto di Stato” (ossia del ritratto ufficiale di ruolo e d’apparato) definita secondo perfetta rispondenza al “principio di somiglianza” per garantirne la riconoscibilità. La posa solenne e seria testimonia l’ intensità degli studi e la profondità del sapere mentre l’abito ne definisce il ruolo cardinalizio. Il gesto elegante sottolinea l’altissimo rango sociale.
Coronazione di spine
1540-1542Questa estrema Coronazione di spine fa parte di quelle opere religiose dell’ultimo Tiziano incentrate sul significato “eroico” della sofferenza e della sconfitta davanti alla violenza fisica e morale degli uomini. Nell’esecuzione Tiziano mira a contrapporre l’agitata gestualità dei manigoldi alla paziente immobilità di Cristo nell’accettazione del sacrificio. La grande pala fu realizzata per la cappella della confraternita di Santa Corona ubicata in Santa Maria delle Grazie a Milano. Molti dettagli, come il busto dell’imperatore, rimandano al testo di Pietro Aretino Umanità di Cristo e alla sua audace interpretazione delle Sacre Scritture.
IconografiaSalomè
1543-1544Salomè, eroina ebrea caratterizzata dall’attributo cruento della testa mozzata di Giovanni Battista, è, secondo una fonte medievale, sposa mancata che sacrifica l’amore alla ragion di stato. Ella era stata istigata dalla madre Erodiade a danzare davanti a Erode, conturbandolo e guadagnandosene il “premio”: la testa dell’amato Battista. La Salomè di Tiziano è una fanciulla dolcissima e malinconica coinvolta in un gioco più grande di lei e costretta a contemplare la testa dell’amato sul vassoio. La testa del Battista presenta le fattezze di Tiziano così come doveva essere intorno ai trent’anni, un autoritratto del pittore che presentandosi in questa veste sembra voler conferire alla vicenda accenti autobiografici. Tiziano si dipinge qui vittima della donna amata Salomè, un po’ vestita e un po’ discinta, come le giovani spose dei ritratti di questi anni.
IconografiaArchivio Giunti
Venere, Amore e organista
1548
olio su tela; 148 x 217
Madrid, Museo del PradoQuesta è la prima di una serie di tre versioni di Venere con l’organista probabilmente dipinte per la corte imperiale durante i soggiorni di Tiziano ad Augusta nel 1548 e nel 1550-1551. Alcuni hanno interpretato tali dipinti come allegorie d’amore sublimato con riferimento al dibattito neoplatonico sulla preminenza, tra i sensi più nobili, della vista o dell’udito; altri le hanno giudicate scene di vita quotidiana identificando le protagoniste non più come Venere, ma come “cortigiane” al cospetto di amanti. Il tema fondamentale è la musica come metafora e immagine d’amore, come richiamo e incitamento ad amore, ma bisognerebbe conoscerne i committenti per stabilire se si tratti di camere matrimoniali o di alcove segrete. La protagonista è comunque la dea Venere, nuda ma riccamente ingioiellata, e la dimensione è allegorica, l’unica in cui sia accettabile, per la mentalità dell’epoca, la rappresentazione del desiderio amoroso. Il musico è assai giovane ed elegante e si volge un po’ scompostamente a rimirare la dea, mentre Cupido sembra promettere favore e consigliare amore.
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Adorazione della Trinità
1551-1554
olio su tela; 346 x 240
Madrid, Museo del PradoCommissionata dall’imperatore Carlo V, l'Adorazione della Trinità è ricordata nei documenti cinquecenteschi anche come Trinità, Paradiso, Giudizio e infine Gloria a testimoniare la complessità dell’iconografia. Si tratta di una visione celeste alla quale sono ammessi i personaggi della casa imperiale, fra i quali si distingue anche l’autoritratto del vecchio Tiziano, introdotti dalle schiere angeliche in alto a destra. La loro veste è un candido lenzuolo ed indica la loro qualità di anime risorte in attesa di giudizio (positivo) e dell’accesso alla suprema beatitudine. Mentre in basso una serie di personaggi dell’Antico Testamento da Mosè a Noè e, a sinistra, Giovanni Battista, ultimo profeta del vecchio mondo e primo del nuovo, sembra aprire la strada alla splendida figura ammantata d’azzurro di Maria mediatrice. Giunti alle sfere supreme si manifesta infine la Trinità rappresentata dalle figure pressoché identiche del Padre e del Figlio ai lati della colomba dello Spirito Santo.
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Diana e Atteone
1556-1559
olio su tela; 190 x 207
Edimburgo, National Gallery of ScotlandIl cacciatore Atteone è condotto dal caso a scoprire Diana e le sue ninfe nude alla fonte; viene tramutato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani (Ovidio, Metamorfosi III). Tiziano, in quest’opera per Filippo II, non rappresenta direttamente la tragedia ma concentra l’attenzione sul momento in cui Atteone giunge alla fonte e subito comprende l’imminente disgrazia: lui, un mortale, è penetrato nello spazio privilegiato degli dèi, anzi, ha visto senza veli le purissime ninfe e la dea stessa della castità. Quel che interessa al pittore è sottolineare il significato negativo della caccia come metafora dell’instabilità della vita umana, inevitabilmente soggetta al capriccio della fortuna e all’ingiustizia degli dèi.
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Autoritratto
1560 circa
olio su tela; 95 x 75
Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, GemaldegalerieNell'Autoritratto di Berlino, Tiziano si presenta con la consueta berretta nera e un camicione da pittore nobilitati da un mantello guarnito di pelliccia e soprattutto dall’onorificenza imperiale: la catena di Conte palatino e Cavaliere dello sperone d’oro donatagli da Carlo V. Egli presentandosi seduto a un tavolo come umanista intendeva rivendicare all’artista una nuova dignità, un nuovo ruolo nella società. Al viso trattato con singolare accuratezza fanno riscontro gli abiti realizzati con tocchi veloci e le mani poco più che abbozzate. Con questi diversi livelli di finitura Tiziano sembra aver voluto mostrare la tensione dell’esperienza artistica tra concezione ed esecuzione e il suo carattere di inesauribile ricerca.
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Maddalena penitente
1565 circa
olio su tela; 118 x 97
San Pietroburgo, Museo dell’ErmitageLa Maddalena dell’Ermitage è indubbiamente la versione migliore delle tante che dipendono dal dipinto destinato a Filippo II ma poi ceduto a Silvio Badoer e rimasto a Venezia. Discinta ma non proprio scoperta, posta in un paesaggio tanto dettagliato quanto inospitale, Maddalena sostituisce il vaso di profumo con la trasparente caraffa simbolo della sua nuova castità, associata al teschio e al libro quali oggetti di meditazione sulla vanità delle cose terrene. Si tratta di un’immagine penitenziale, qualificata, oltre che dagli attributi, dall’intensa espressione degli occhi lacrimosi che riscatta il potenziale erotico della peccatrice redenta. Maddalena appare qui mentre affronta il percorso dell’ascetismo, la difficile esperienza della meditazione in solitudine, un richiamo forse alla spiritualità vissuta in modo intimo, individuale in forte contrasto con la religiosità organizzata e disciplinata che contraddistingueva i tempi.
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Jacopo da Strada
1567-1568
olio su tela; 125 x 95
Vienna, Kunsthistorisches Museen, GemaldegalerieL’iscrizione nell’ornata cornice in alto a destra è posteriore ma utile a identificare Jacopo da Strada, mercante d’arte ed espertissimo numismatico, impiegato a Vienna (dal 1558) presso Massimiliano II come consulente artistico e antiquario. Di Tiziano, se non proprio amico fu certo socio in affari. Il suo ritratto è uno dei capolavori assoluti di Tiziano e sembra tracciarne la biografia con esattezza. L’abito elegantissimo, la ricca pelliccia, quattro giri di catena d’oro con medaglione, l’anello con sigillo, la spada e lo stiletto ai fianchi sottolineano una personalità snob, mentre la statuetta di Venere ne illustra l’attività di commerciante, le monete quella di numismatico e i libri quella di trattatista. Ma Tiziano si riserva di dire la sua: consegnando all’immagine il gesto pressante, il mezzo inchino ossequioso, lo sguardo rapace; e risolvendo nella “vanitas” - con la clessidra posta accanto ai libri a segnalare l’inesorabile scorrere del tempo - le frenetiche attività del mercante e le effimere presunzioni del cortigiano.
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Il supplizio di Marsia
1570-1576
olio su tela; 212 x 207
Kromeriz (Repubblica Ceca), Zomek a ZahradyIl supplizio di Marsia è capolavoro senza destinatario e assai innovativo per interpretazione ed esecuzione. Il tema della contesa musicale che vede Apollo protagonista, e naturalmente vincitore, contro Pan o contro Marsia deriva dal racconto delle Metamorfosi di Ovidio ed ebbe notevole fortuna nel XV e nel XVI secolo. Tiziano sceglie del mito il momento in cui la presunzione di Marsia viene punita con il supplizio per scorticamento. La posizione frontale di Marsia appeso centralmente a testa in giù divide la scena in due parti: a sinistra, Apollo scortica personalmente il satiro, a destra, un secondo satiro, forse il dio Pan, porta un secchio: se vuoto, servirà a raccogliere il sangue del sacrificio; se pieno d’acqua, ad alleviare la sofferenza del compagno; accanto a lui sta re Mida, assorto in meditazione e profonda commiserazione. Mida, è inequivocabilmente un autoritratto di Tiziano e sembra affermare con assoluta chiarezza che il giudizio di Mida è in realtà il giudizio stesso dell’artista, stolto per aver creduto all’illusione del tocco d’oro: la lunga illusione del “tocco d’oro” del grande pittore, l’antica presunzione di trasmutare la materia in immagine preziosa, spenta dalla coscienza finale dell’assoluta irrilevanza dell’operazione artistica di fronte alla disgrazia della storia.
San Gerolamo nel deserto
1570-1575Il San Gerolamo dell’Escorial, inviato a Filippo II nel 1575, è uno dei pochi dipinti degli anni estremi che abbia una precisa e prestigiosa destinazione. Nel quadro dell’elogio cristiano-umanistico della vita contemplativa, la cultura veneziana del secondo Quattrocento/primo Cinquecento costruisce e diffonde l’iconografia di san Gerolamo nel deserto. L’immagine presenta due aspetti complementari: l’eremita penitente, concentrato nella meditazione e l’eremita studioso, impegnato nella traduzione e nel commento delle Scritture, caratterizzato dal libro o dai libri. Tutti e due comunque rappresentati con il leone mansueto in un “deserto” popolatissimo di simboli, soprattutto delle pessime bestie della tentazione: locuste, scorpioni, serpenti, sauri d’ogni genere e dimensione. Come pala d’altare destinata al monastero e ai suoi monaci fu certo apprezzata come modello di esperienza ascetica capace di conciliare serenamente penitenza e studio.
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La Pala Gozzi di Tiziano
di Michele PolverariLa Pala Gozzi (composta di nove assi di pioppo, per un totale di 322 x 215 cm) è la prima opera di Tiziano pervenutaci datata: 1520, come si legge sopra la firma, nel cartiglio posto al centro in basso. Luigi Gozzi, ricco commerciante raguseo attivo ad Ancona, commissionò il quadro per l’altare maggiore della chiesa di San Francesco ad Alto, dove esso rimase fino all’Unità d’Italia.
L’opera appartiene alla fase postgiorgionesca della pittura di Tiziano, della quale prova altissima era già stata l’Assunta dei Frari (1516-1518), cui la pala di Ancona si collega per evidenti analogie iconografiche (come nei gesti dei due santi, che ricordano quelli dei due apostoli con la tunica rossa) e soprattutto per l’inversione del dramma: là un levarsi, qui un giungere improvviso della Vergine.
Alla base della composizione piramidale sono san Francesco e san Biagio (protettore di Ragusa) che indica la visione divina al Gozzi. Uomo che si presume avvezzo all’arroganza della mercatura, il committente è ritratto nella posa affettata del fedele; egli “vuol” vedere la Madonna, il Bambino e gli angeli, ma a crederci, e il quadro sembra suggerirlo, sono solo i santi. Se la filosofia (Pomponazzi) formulava la teoria della “doppia verità”, ben poteva la grande pittura colmare lo iato tra il credere e il non credere, tra l’essere e il sembrare. Molto si discuteva di libero arbitrio: nel quadro, la veduta di Venezia è anche il referente del possibile, dell’agire umano reale, nel quale soltanto si guadagna la salvezza. E l’albero di fico (che pure ha una funzione costruttiva) è un chiaro simbolo soteriologico.
L’INTERVENTO
L’intervento di restauro si era reso necessario soprattutto per riparare le fenditure prodottesi sulle assi della tavola; le lesioni avevano procurato distacchi della preparazione e del colore, mentre su tutto il supporto era in atto un forte attacco di insetti xilofagi. La superficie pittorica, abrasa da vecchie puliture, era offuscata da pesanti vernici colorate, residui di colle, ritocchi e ridipinture. Condotto da Carlo Giantomassi e da Donatella Zari sotto la direzione dell’Istituto Centrale del Restauro, l’intervento è durato dal luglio 1986 all’aprile 1987.
Le fenditure del legno sono state risarcite con cunei di pioppo; la parte terminale del supporto è stata rinforzata ponendo, sulla traversa centrale, una sbarra di ottone legata al residuo di traversa superiore con viti inserite in asole, in modo da permettere i movimenti naturali del legno.
Il supporto è stato quindi disinfestato con xilamon e consolidato con resina acrilica. I distacchi della preparazione e del colore sono stati fissati con iniezioni di colletta. La pulitura della superficie pittorica è consistita nella rimozione delle vernici più recenti, dello strato di colla, dei residui di “beverone” dei ritocchi e delle ridipinture con miscele di solventi organici volatili e rifinita ad azione meccanica con bisturi. Le lacune sono state stuccate con gesso e colla di coniglio e reintegrate con acquarello. La pellicola pittorica è stata poi protetta con vernice Retoucher (1).
NOTE
(1) La sistemazione dell’opera è stata curata da Massimo Di Matteo. Della mostra sul restauro e l’analisi della pala (foto di Giovanni Matarazzo, radiografie di Ugo Salvolini, riflettografie della E. Di.Tech., sezione critiche) è stato pubblicata un catalogo (edizioni Grafis) che si apre con un saggio di Pietro Zampetti e in cui viene tra l’altro illustrata un’inedita documentazione vaticana, riguardante l’inchiesta condotta nel 1652 dal vescovo di Ancona Luigi Gallo, dalla quale risulta che nel quadro mancavano "da molti anni in qua due figure che stavano distintamente poste in piede di esso".
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None
L'Amor sacro e profano di Tiziano, un amore per Venere e Proserpina
Il celebre dipinto di Tiziano, conservato alla Galleria Borghese di Roma, non ha in realtà nessuna precisa relazione con il tradizionale titolo di Amor sacro e profano; è piuttosto un'allegoria delle stagioni, basata sui miti gemelli di Adone (amato da Venere) e Proserpina (amata da Plutone), che erano entrambi destinati a trascorrere una metà dell'anno sotto terra.
di Maurizio Calvesi
Il cosiddetto Amor Sacro e profano di Tiziano, della Galleria Borghese di Roma, è uno dei dipinti più assediati dall’iconologia, che a lungo si è occupata del suo soggetto, con risultati tuttavia non conclusivi. Dallo stemma che compare sul sarcofago-fontana, accanto alla cannella da cui scende l’acqua, sappiamo che il committente dell’opera fu Niccolò Aurelio, segretario del Consiglio dei Dieci a Venezia. Costui si unì in matrimonio, nel 1514, a Laura Bagarotto e nel fondo del bacile posto sul sarcofago si può decifrare anche lo stemma di questa casata: dunque il dipinto, che stilisticamente è collocabile tra il 1514 e il 1516, fu con ogni probabilità eseguito a ridosso delle nozze, forse nell’occasione.
Un inventario della raccolta Borghese del 1613 lo menziona come “Beltà disordinata e Beltà ornata”. Solo più tardi si parlò di “Amor sacro e profano”, con un contrapposto morale e concettuale su cui tutta la storiografia ottocentesca ha insistito: “l’amore e la pudicizia”, “la favola e la verità”, “natura e civiltà”, “virtù e voluttà”.
STORIA DI UN’INTERPRETAZIONE
Particolare dell'Amor sacro e profano di Tiziano (1514-1516), Roma, Galleria Borghese.
Il Wickhoff (1) pensò al mito di Venere e Medea, il De Minerbi (2) a Penelope e Calipso: senza fondamento. Il Clerici (3) portò un contributo basilare, riconoscendo che la scena presentata nella metà destra del sarcofago è ripresa dal Sogno di Polifilo di Francesco Colonna. Anche nella xilografia del Polifilo, per altro, questa scena è raffigurata su un sarcofago-fontana, che versa acqua, e su cui siede una dea. L’episodio è quello di Marte che picchia il proprio rivale in amore Adone; Venere accorre in soccorso dell’amato e calpesta un aculeo, pungendosi il piede. Ma la preziosa indicazione non è stata ben utilizzata dai successivi interpreti; l’Hourticq (4) pensò a Polia amata da Polifilo e propose di identificare la giovane di sinistra con Violante, l’innamorata (ovvero la “Polia”) di Tiziano.
Il sarcofago di Adone visto dai due lati nell'Hypnerotomachia Poliphili. Nella xilografia in basso, sul sarcofago si riconosce Venere.
Altri perseverarono nella ricerca di significati filosofico-morali e fu il Panofsky (5) che fornì la lettura che è ancora la più accreditata: Tiziano si sarebbe rifatto al Convito, dove Platone distingue due Amori e due Veneri, la Venere Celeste (ovvero l’amor divino e la bellezza ideale) e la Venere Volgare (ovvero l’amore umano e dei sensi). Marsilio Ficino parlava, a questo proposito, di due Veneri gemelle (“geminae Veneres”), ed effettivamente le due donne dipinte da Tiziano si assomigliano come due gocce d’acqua. La figura nuda (nudità come verità, bellezza che non ha bisogno di ornamento) sarebbe Venere Celeste, che innalza con la mano la fiamma del divino amore; quella riccamente vestita, invece, e che poggia la mano sinistra su un portagioie, impersonerebbe la Venere Volgare. Nel mezzo, Cupido farebbe da intermediario.
La proposta potrebbe sembrare convincente, benche la nudità della dea appaia piuttosto sensuosa che casta. Ma il sarcofago-fontana con le sue figurazioni non viene ben spiegato, e anzi l’episodio di Adone risulterebbe contraddittorio con l’identità della soprastante Venere Celeste, rinviando a un amore carnale. Panofsky aggira l’ostacolo col negare la pur evidente (e unanimemente condivisa) derivazione dal Polifilo. Non si tratterebbe di Adone, ma solo di una scena di castigazione dell’amore di basso grado. Ma questo passaggio della sua lettura è stato il più contestato.
L’illustre interprete cerca poi di condurre a un significato moralmente congeniale la scena rappresentata nella parte sinistra del sarcofago, dove gli agitati personaggi sarebbero impegnati a frenare il cavallo, emblema di una passione senza controllo.
Il Wind (6) ha modificato l’interpretazione di Panofsky: la nuda non ha sacralità, la giovane vestita ostenta una cintura fermata da una fibbia, che sarebbe simbolo di onesto amore. Le due donne non sarebbero dunque le “geminae Veneres”,. ma potrebbero dialogare tra loro sui misteri dell'amore.
Come si vede, l’orientamento interpretativo su temi neoplatonici, concettuali e morali, cui l’iconografiatradizionale è fin troppo affezionata, si è arrestato, in questo caso, su un’invalicabile soglia di incertezza.
LE STAGIONI DI POLIFILO
Diverso è invece se, approfondendo l’indicazione del Clerici, passiamo a esplorare l’area cui l’allegoria del Polifilo pertiene: cioè quella naturalistica e mitologica del ciclo delle stagioni e del loro continuo, vitale avvicendarsi. Occorre allora preliminarmente analizzare e comprendere questa allegoria (7), che è illustrata dalle xilografie del volume, ma meglio dettagliata nel testo. Venere allatta con le sue lacrime Cupido, seduta in pianto su un sarcofago-fontana che è il tumulo di Adone. Il corpo del giovane si trova infatti colà sepolto, insieme al sangue che la dea, punta dal rovo, aveva sparso e che Cupido aveva raccolto. Sulle due facce del sarcofago è rappresentato da un fianco il già descritto episodio (la dea si punge nel soccorrere l’amato) e dall’altro Adone ucciso da un cinghiale, di fronte a Venere esanime per il dolore.
Il ratto di Proserpina (la greca Persefone) da rilievi antichi: due particolari di sarcofagi romani (Roma, Vaticano, sopra; Berlino, sotto) in riproduzioni del secolo XIX
Ogni anno, alla vigilia delle calende di maggio, la dea visita il sepolcro e vi sparge le rose del pergolato. Il primo maggio lo spoglio roseto rifiorisce di rose bianche. Alle idi dello stesso mese la dea ritorna, getta nel fonte le rose recise, e commemora il giorno in cui il suo piede fu ferito dagli spini; allora il coperchio del sarcofago viene sollevato (il che vuol dire che Adone risorge) (8), e tutte le rose bianche si tingono di rosso, risorgendo anche il sangue di Venere.
Le fonti su cui si basa Francesco Colonna per il suo racconto sono dive!se: Aftonio narra l’episodio di Venere punta da uno spino, il cui sangue arrossa le rose. Macrobio (ripreso dal Boccaccio, dall’Equicola, dal Dolce, dal Conti e dal Cartari) (9) suggerisce che Venere piangente sul tumulo di Adone è un’allegoria della Terra, orbata del sole (Adone) durante l’inverno; e che le lacrime della dea sono un’immagine delle acque, prodotte copiosamente dalla terra durante la cattiva stagione. Il sepolcro di Adone, spiega ancora Macrobio, rappresenta il regno d’oltretomba di Proserpina, il sottosuolo o emisfero inferiore (quello superiore è impersonato da Venere stessa), dove scende Adone morto: ovvero il sole che d’inverno si congiunge ai segni zodiacali inferiori, si fa più debole e cede il posto a lunghe notti.
Conclude Macrobio: “Ma quando il sole emerge dalle parti inferiori della terra e valica i confini dell ‘equinozio invernale aumentando la durata del giorno, allora Venere è lieta e i campi verdeggiano di messi, i prati di erbe, gli alberi di foglie”. Adone-Sole risorge e la terra fiorisce.
L’allegoria di Macrobio si incrocia poi con il mito narrato da Apollodoro di Atene (10): Adone muore e discende sotto terra nel regno di Plutone e di Proserpina; ma Venere patteggia con Proserpina e ottiene che l’amato resti laggiù solo metà dell’anno, mentre per l’altra metà tornerà da lei nel mondo dei vivi. Il racconto del Colonna è dunque un’allegoria delle stagioni: Venere-Terra piange quando è separata da Adone-Sole, ma a maggio (la stagione in cui si ricongiunge all’amato) fa fiorire le rose con il sangue versato per lo stesso Adone, sangue che è quindi un simbolo delle linfe della terra e del calore del sole, restituito ed effuso dalle zolle. Il sarcofago rappresenta il Sottosuolo, il regno di Proserpina, cui allude il serpente che fa da doccione (secondo Varrone Proserpina significa serpente, e questo è in effetti un attributo della dea: Proserpina, dice lo stesso Polifilo in un altro passo, “di insinuose vipere cesariata”, cioè con chioma di serpenti) (11).
Il ratto di Proserpina in una xilografia di Virgiluis Solis, da un'edizione del 1563 de Le metamorfosi di Ovidio
L’ALLEGORIA DI TIZIANO
A questo punto non ci sarà difficile comprendere il significato del dipinto di Tiziano, se aggiungeremo un altro dato fondamentale, cioè una corretta lettura della scena rappresentata nella metà sinistra. In primo piano vediamo un cavallo; dietro, una giovane è violentemente tirata a sé da una figura maschile, mentre una terza figura, seminascosta dalla pianta, si slancia verso la fanciulla. Si tratta evidentemente del mito di Proserpina, del suo ratto a opera di Plutone. Su questo, non lascia dubbi il confronto con l’iconografia tradizionale del tema, largamente attestata da sarcofagi antichi e da figurazioni rinascimentali che si ispirano al racconto di Ovidio. Plutone rapisce Proserpina su un carro tirato da cavalli, mentre la ninfa Ciane cerca invano di impedire la cattiva azione. Talvolta (come in un’incisione di Dürer del 1516 o in un’illustrazione de Le Confort d’Amy di Guillaume de Machant, del 1357) il cavallo è uno solo, senza carro, così come anche Tiziano ha concepito la scena.
Il ratto di Proserpina in un'incisione di Albrecht Dürer del 1516
Esaminiamo ora le due donne sedute sul sarcofago: quella vestita, con l’indice proteso della mano sinistra, segnala la figura sotto effigicita della giovane rapita, ovvero di Proserpina. Quella nuda insiste sulla figura di Venere che soccorre Adone.
Ma le due donne sono appunto le stesse Proserpina e Venere. La fiamma e il manto rosso come il sangue da lei sparso si addicono a Venere, che del resto già alcuni interpreti avevano riconosciuto nella donna di destra. Anche l’esibizione della nudità, con un drappo puramente decorativo che non la copre, è tipica delle statue classiche di Afrodite.
Il ratto di Proserpina in una miniatura da Le Confort d'Amy (1357) di Guillaume de Machant
La giovane di sinistra ha un mazzetto di fiori nella mano, attributo proprio di Proserpina (la greca Persefone, figlia di CerereDemetra) e una corona di mirto sul capo. La corona di mirto o mortella, d’uso funerario, era sacra a Proserpina, dea dell’oltretomba (12). Anche la patera, ovvero il largo e basso bacile che è in mostra sul sarcofago, è un comune attributo di questa dea. Infine, nel presunto “portagioie”, su cui poggia la sua destra, è probabilmente da riconoscere la cassetta scrigno (la “cista secretorum”) in cui erano gelosamente serrati i segreti del rito eleusino, istituito da Cerere per festeggiare il ritorno della figlia (13): rito misterioso, la cui titolare era appunto Proserpina-Persefone.
Dunque le scene raffigurate sul prospetto marmoreo sono salienti episodi della vita stessa delle due protagoniste del dipinto. Protagoniste gemelle perche Venere, come divinità della terra e dea “genitrice”, era talvolta identificata con Cerere stessa, madre-doppio di Proserpina (14); e perche entrambe le dee rappresentano, o evocano, la terra (15): la terra “vestita” durante la buona stagione (quando Proserpina primavera torna appunto sulla terra, risalen do come Adone dal sottosuolo); e la terra “nuda” durante l’inverno (quando Venere è separata da Adone-Sole ). I miti di Adone e Proserpina sono a loro volta identici: come Venere patteggià con Proserpina, ottenendo che Adone trascorresse metà dell’anno con lei, sulla terra (e l’altra metà sotto terra), così Cerere patteggià con Plutone che aveva rapito nel sottosuo lo Proserpina, ottenendo la stessa cosa per lei.
Adone e Proserpina si trovano così appaiati nelle due scene del sarcofago, che allude alla sede sotterranea dove scesero, ma per risalirne. Entrambi sono simbolidell’avvicendarsi delle stagioni: del seme, e del calore del sole, che covano nascosti durante l’inverno e germogliano o risplendono in primavera. L’ “amore” (di Cerere e Plutone per Proserpina, di Venere per Adone) è la forza che muove il grande ciclo, secondo le allora diffuse teorie di Leone Ebreo e di altri trattatisti: Cupido lo impersona.
Il ratto di Proserpina in un particolare di urna cineraria etrusca dal Museo Guernacci di Volterra
Come la Tempeste di Giorgione e il Concerto campestre di Giorgione-Tiziano, il cosiddetto Amor sacro e profano è un’allegoria naturalistica della Terra e dell’amore che muove gli elementi. Non ha nulla a che vedere con gli assunti morali e concettuali del neoplatonismo. Nel sarcofago, che è immagine del sottosuolo ricco di umori, le acque sono confuse ( come leggiamo nel Polifilo) con il corpo di Adone e con il sangue di Venere, ovvero con lo smorto calore del sole invernale e con le linfe della terra: cui si aggiunge (sembra suggerire Tiziano) il seme sotter raneo, che è la specifica identità simbolica di Proserpina quando alberga nelle viscere della terra (16). Cupido mescola e “tempera” (tempe rare significa anche mescolare) il miracoloso liquido contenuto nel sarcofago-sottosuolo, sede per metà dell’anno dei due giovani esiliati (Adone e Proserpina, appunto) che allorche la stagione “tempera” l’aria risorgono sulla terra e l’ammantano di vegetazione.
Corona a foglie di mirto, sacre a Proserpina, nella tomba di Crepereia a Tryphaena (II sec. d.C.), oggi ai Musei Capitolini
Il braciere che Venere sostiene con la mano e da cui esce un poco di fumo, oltre o invece che la fiamma dell’amore, potrebbe simboleggiare proprio il tenue e quasi spento calore che la terra conserva, quando d’inverno il sole l’abbandona. Il braciere, del resto, è un simbolo dell’inverno. Ma su questi minuti particolari non possiamo pretendere la certezza. Le affinità con l’allegoria del Polifilo risultano comunque più strette ed evidenti: anche sul sarcofago-fontana di Adone, descritto da Francesco Colonna, siede Venere con Cupido, mentre la stessa Proserpina (sotto forma di serpente) vi è presente.
Il volto di Proserpina con la corona a foglie di mirto in un particolare dell'Amor sacro e profano di Tiziano
E come sul sarcofago-fontana del Polifilo Venere sparge le rose, così una rosa è posata in bella vista sul sarcofago-fontana dipinto da Tiziano, mentre l’arbusto fiorito erompe in primo piano, in prossimità dello sgorgo. Nel paesaggio intorno si vede un lago (Proserpina fu rapita nei pressi di un lago) ed è schizzata una scena di caccia (Adone morì andando a caccia), mentre compare anche una coppia di conigli, allusivi all’amore come forza di natura, o alla primavera (stagione in cui la pelliccia del coniglio si rinnova). Proserpina, che era nel sarcofago-sottosuolo, siede ormai sopra di esso. Ma i tempi della successione “logica” , sono poeticamente fusi nella trama simultanea dei simboli. Tra Venere e Proserpina si colloca Cupido che favorisce il trapasso dalla stagione invernale a quella primaverile, mescolando e “temperando”, il liquido sotterraneo che sgorga e fa fiorire l’arbusto. Probabilmente, infine, il momento che Tiziano ha scelto di rappresentare è quello in cui Venere intercede presso Proserpina, implorandola di concederle Adone (o la ringrazia per averglielo concesso?): Venere “nuda” si rivolge a Proserpina ammantata, simbolo di quella florida vegetazione che sboccia quando Adone e la stessa Proserpina tornano sulla terra, ovvero a Venere. Venere, che è ancora o fu “invernale”, e vedova, prega o ringrazia il suo doppio primaverile (17).
NOTE
(1) F. Wickhoff; Giorgiones Bilder zu romischen Heldengedichten, in Jahrbuch der Koniglich Preussischen Kunstsammlungen, XVI, Berlino 1895.
(2) P. H. De Minerbi, “La tempesta’ , di Giorgione e l’ “Amor sacro e profano” di Tiziano nello spirito umanista di Venezia, Milano 1939.
(3) C. R Clerici, Tiziano e la Hypnerotomachia Poliphili, in La Bibliofilia, XX, 1918-1919, pagg. 183-203, 240-248.
(4) L. Hourticq, Lajeunessede Titien, Parigi 1919.
(5) E. Panofsky, Studi di iconologia, Torino 1975 (ed. originaie, Oxford-New York 1939).
(6) E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Milano 1985 (ed. originale, Lodra 1958).
(7) Il lettore di Art e Dossier può già trovare un accenno a questa allegoria nel fascicolo Il mito dell’Egitto nel Rinascimento (n. 24, maggio 1988, p. 42).
(8) Sul sarcofago figura la scritta ADONIA, con chiaro riferimento alle feste in onore di Adone, cosi chiamate, di cui parlano Luciano e Plutarco e in epoca moderna N. Conti (Mythologiae, Venezia 1551). Durante queste feste si celebravano i funerali di Adone e, il giorno dopo, la sua resurrezione.
(9) Aftonio, Progymnasmata (sec. IV); T.A. Macrobio, Saturnalia (sec. V); C. Boccaccio, De genealogia deorum (sec. XIV); M. Equicola, De natura de Amore, 1525 (principiato nel 1495); L. Dolce, Le Trasformationi, 1561; N Conti, op. cit.; V. Cartari, Le imagini, 1556.
(10) Apollodoro di Atene, Perì Theon (sec. II a.C.).
(11) Il serpente è attributo di Proserpina anche perchè Giove, suo padre, per unirsi incestuosamente a lei si trasformò in questo animale. Il serpente che figura come doccione nel sarcofago del Polifilo rappresentante il sottosuolo ha la funzione, con le sue spire, di «infrenare lo impeto dell’acqua“ che spinge per uscire. Secondo Apuleio (Metamorphoses), Proserpina frena l’impeto delle ombre che vogliono evadere dal suo regno (“impetus comprimens”, che M. Bontempelli ha tradotto proprio come Francesco Colonna: “infrenante gl’impeti”).
(12) Corone di mirto, detto anche mortella, in metallo sono state rinvenute nelle sepolture romane. Si veda ad esempio L. Pirzio Biroli Stefanelli (Crepereia Tryphaena, cat. della mostra tenuta a Roma nei Musei Capitolini nel 1983, p. 38) nella scheda del corredo funebre di Crepereia: "La corona è formata da rametti di mortella (buxus semper virens) giustapposti e intrecciati […] I rami del mirto e della mortella, sacri a Proserpina, erano utilizzati spesso per corone d’uso funerario”.
(13) La “cista secretorum” di cui parla Apuleio compare a volte, negli antichi sarcofagi, quale attributo di Cetere (madre di Prosepina), che vi posa il braccio come il giovane del dipinto di Tiziano: si veda il sarcofago del Louvre già a Roma nella chiesra dei Santi Cosima e Damiano, riprodotto nel Codice Wolfegg attribuito ad Amico Aspertini, nonché nel Codex Coburgensis, e tenuto presente dal Pinturicchio nella scena del Ratto di Proserpina della Libreria Piccolomini di Siena.
(14) Il gemellaggio di Cerere e Venere ha una lunga tradizione, a cominciare dai due inni omerici a Demetra (Cerere) e Afrodite (Venere), pubblicati nel 1488 a Firenze, che hanno tra di foro strette affinità già rilevate dagli umanirli. A foro volta Cerere e Proserpina (Demetra e Persefone) sono divinità speculari. - Persefone è la figlia di Demetra e la dea madre e la dea figlia costituiscono, nel mito e nel culto, una coppia indivisibile, che si usava designare come “le due dee”; e in questo particolare aspetto di “dea figlia di Demetra”; Persefone veniva di Preferenza chiamata Kore, cioè “la figlia”. Demetra è la dea della terra, è anzi la madre-terra stessa; e di questo aspetto partecipa Kore, la figlia - (G. Bendinelli, in Enciclopedia Italiana, voi. XXVI, p. 799). Apuleio identifica Venere con Cerere, Proserpina e altre da: "Regina del cielo, sia tu Cerere, alma genitrice delle biade primeva, che lieta per il ritrovamennto della figlia […] molto onori le zolle eleusine; sia tu Ventre celeste […], sia che in vari culti sei fatta propizia come Proserpina […], con qualsivoglia nome, con qualsiasi rito, con qualunque aspetto sia lecito invocarti, porgi aiuto ormai ai mie ultimi affanni". La dea risponde: “Eccomi, son qui, Lucio, commossa dalle tue preghiere; io, genitrice delle cose della natura […], aspetto uniforme delle dee degli dei, […] io il cui unico nume sotto aspetti multiformi con svariati riti e diversi nomi è venerato in tutto il mondo”.
(15) Si veda la nota precedente. Secondo Varrone (citato anche da sant’Agostino, De civitate Dei, VII; XXIV) la Terra è chiamata anche Proserpina, perchè da essa nascono le messi.
(16) Si veda N. Conti (op. cit., ed. 156; p. 78 b), che riprende il Boccaccio e Pomponio Leto: "Proserpinam, quamfrugum semen esse volunt".
(17) La presente interpretazione dell’Amor sacro e profano, qui pubblicata per la prima volta, fu esposta dall’autore nel 1980 in una conferenza nella Sala Barbo di Palazzo Venezia e in una relazione al convegno “Roma e l’antico” presso l’Accademia Nazionale dei Lincei (21 ottobre 1982). Inoltre un accenno riassuntivo è già in M. Calvesi, Adone è passato di qui, L’Espresso del 22 Febbraio 1981.