Francesco Hayez: biografia
Nasce a Venezia nel 1791 da una famiglia povera che, ben presto, lo affida allo zio Giovanni Binasco, amatore e mercante d’arte di origine genovese. In questo ambiente Hayez si accosta alla pittura, divenendo allievo dei pittori Francesco Magiotto e Teodoro Matteini. Dopo aver vinto, nel 1809, il concorso per l’alunnato di Roma, si trasferirà presto nella capitale, affidato da Leopoldo Cicognara (presidente dell’Accademia veneziana) ad Antonio Canova. Grazie alla protezione dell’influente scultore, nel 1812 Hayez vince il concorso di pittura dell’Accademia di Brera sul soggetto del Laocoonte e comincia a farsi conoscere nell’ambiente artistico romano, accostandosi, in particolare, a quello classicista e purista come dimostrano le sue prime opere importanti: Rinaldo e Armida (1813) inviato all’Accademia di Venezia come ultimo saggio del triennio romano, e Ulisse alla corte di Alcinoo (1814-1816), commissionatogli da Gioacchino Murat e inviato alla corte napoletana. Con L’atleta trionfante (1816) Hayez vince, sconfiggendo il purista Ingres, il concorso dell’Accademia di San Luca, mentre il 1817 è l’anno del suo ritorno a Venezia dove, lavorando anche a Padova e a Milano, sarà bene accolto dai maggiori rappresentanti della cultura locale. A Milano Hayez ereditò la cultura neoclassica di Appiani e Bossi, creando una maniera accademica di grande mestiere e nobile pathos. Il grande quadro del 1820 con Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, presentato con successo all’esposizione dell’Accademia di Brera, diverrà il manifesto del romanticismo storico. Tutti i capolavori di questo periodo - come i Vespri siciliani (1821-22), Pietro l’Eremita predica la crociata (1829) e i Profughi di Parga (1831) - saranno dedicati a temi storici che alludono, in realtà, a fatti e aspirazioni del Risorgimento, in una dimensione sentimentale e passionale. Seguendo sempre il proprio rigoroso ideale formale, Hayez affronterà alcuni soggetti amorosi o patetico-religiosi, significativi del gusto di una certa committenza frivola ma influente: L’ultimo bacio di Giulietta e Romeo (1823), La Maddalena penitente (1832), Loth con le figlie (1833), Betsabea al bagno (1834), dipinti che suscitavano scalpore e scandalo per l’esplicita sensualità cui alludevano. Grazie ai buoni rapporti instaurati con il governo austriaco, nel 1837 Hayez realizza in Palazzo reale il grande affresco con l’Allegoria dell’ordine politico di Ferdinando I. Amico di personaggi come Manzoni, Rosmini, Rossini, ci ha lasciato di loro e di grandi famiglie lombarde un gran numero di ritratti caratterizzati da un misurato equilibrio e un aristocratico decoro che tengono sotto controllo le emozioni e la psicologia del soggetto. Dal 1850 insegna all’Accademia di Brera e nel 1852 espone a Verona la Meditazione, commosso ricordo del martirio delle Cinque giornate. Nel 1859 Hayez presenta il Bacio all’esposizione allestita a Brera per l’ingresso di Vittorio Emanuele e Napolene III, il suo quadro forse più famoso e popolare, mentre la seconda versione sarà inviata all’esposizione di Parigi del 1867. La precoce delusione risorgimentale si tradurrà in un abbandono sempre più decisivo della pittura storica educativa e celebrativa. Del 1867 sono le ultime due opere monumentali, la Distruzione del tempio di Gerusalemme e Marin Faliero, che furono presentate a Brera come testamento artistico destinato alle due accademie di Venezia e di Milano, dove sono ancora conservate. Il suo ultimo capolavoro, Un vaso di fiori sulla finestra di un harem, è eseguito un anno prima della morte, che avverrà a Milano il 21 dicembre del 1882.
Francesco Hayez: le opere
Rinaldo e Armida
1812-1813Eseguito dall’artista appena ventenne per il rinnovo del quarto anno di pensionato a Roma, il dipinto, ispirato alla Gerusalemme Liberata del Tasso, rimase esposto con grande successo durante i primi mesi del 1813 presso l’Accademia nazionale di Palazzo Venezia per poi essere inviato all’Accademia veneta. L’opera rappresenta, forse, il momento più alto della prima produzione neoclassica dell’artista che fu, anche in questo caso, incoraggiato e sostenuto dal Canova. Le vicende dell’esecuzione sono raccontate nelle Memorie, dove si parla del rapporto di Hayez con i due modelli e, in particolare, con la bellissima giovane di diciannove anni utilizzata per la figura di Armida, che aveva suscitato rispetto e devozione nell’artista, in genere facile preda di turbamenti amorosi. Lo stile purista e la scelta iconografica tassesca sembrerebbero derivare dalla pittura dei Nazareni tedeschi, dei quali a Roma si cominciava a notare la presenza, come racconta nelle Memorie lo stesso Hayez; mentre il luminoso e sensuale nudo di Armida evoca la Paolina Borghese come Venere vincitrice (1805-1808) di Canova. La scena, immersa in una calda atmosfera tizianesca, si apre sul fondo in un misterioso paesaggio che ricorda un romantico giardino all’inglese, ed è questo l’elemento più affascinante e straordinario, insieme al virtuosistico rimando delle immagini riflesse, dallo scudo allo specchio d’acqua, che sembra un’eco della Susanna e i vecchioni del Tintoretto a Vienna.
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Laocoonte
1812
olio su tela; 175 x 246
Milano, Accademia di BreraIl dipinto è entrato all’Accademia di Brera poiché inviato dallo stesso pittore come saggio del concorso di pittura bandito nel 1812 sul tema di “Laocoonte, figlio di Priamo e sacerdote di Apollo, vittima, coi figli, della vendetta di Minerva, per cui partirono due grossi serpenti da Tenedo per avvinghiarli a morte nelle loro spire”, concorso del quale l’opera di Hayez risultò vincitrice ex-aequo insieme a quella di Antonio De Antoni, un protetto di Andrea Appiani. Si trattava di un tema molto dibattuto nella letteratura artistica neoclassica ma che escludeva, in questo caso, la derivazione dal celebre gruppo scultoreo vaticano, allora a Parigi, poiché sarebbe stata una soluzione troppo scontata. Hayez, infatti, rinuncia all’isolamento eroico e plastico dei protagonisti del dramma, ossia Laocoonte e i due figli, scegliendo di inserirli, invece, in un ambiente scenografico di ampio respiro, abitato anche da altri personaggi che si muovono in un ritmo incalzante e corale sottolineando la dimensione collettiva e civile dell’evento. Il gruppo centrale rimane, comunque, quello più importante e sembra derivare da Domenichino e Poussin, aggiornati sui modi dell’inglese John Flaxman, oltre che dai marmi classici e dalla statuaria di Canova. Il grande scultore neoclassico Antonio Canova rappresentò una guida e fu un protettore influente per Hayez, soprattutto durante gli anni formativi trascorsi a Roma dal 1809 al 1817. L’eroica posa della figura del Laocoonte risulta senz’altro ispirata al gruppo canoviano dell’Ercole e Lica (1795-1815), così come il giovane che regge il toro riprende la posa del Pugilatore (Damosseno) vaticano.
Ulisse alla corte di Alcinoo
1814-1816Questa grande opera di Hayez costituisce una prestigiosa commissione di Gioacchino Murat - nell’ambito della sua politica di promozione dell’arte contemporanea neoclassica - e verrà consegnata, dopo la sua scomparsa, al sovrano restaurato Ferdinando I di Borbone e collocata a Capodimonte. L’introduzione di Hayez presso Murat si deve ai suoi due sostenitori Antonio Canova e Leopoldo Cicognara (amico dello scultore e presidente dell’Accademia di Venezia) che, in frequente contatto con la corte napoletana e con molte altre prestigiose committenze pubbliche e private, furono i principali responsabili del successo dell’artista a livello nazionale. Risulta, senz’altro, il dipinto più impegnativo eseguito da Hayez durante gli anni romani, dove si ritrovano suggestioni di opere di Tommaso Minardi, della Stele funebre a Giovanni Volpato (1804-1807) di Canova, per le figure sedute sulla sinistra, e delle incisioni del Flaxman per la complessa impostazione. Evidenti sono pure le influenze degli antichi maestri conosciuti a Roma: il Raffaello delle Stanze vaticane, ripreso in una citazione quasi letterale del Diogene della Scuola d’Atene nel giovane seduto sulla scala a destra, il Domenichino delle Storie di santa Cecilia e il Poussin per la monumentalità architettonica del fondo con le figure bloccate in mezzo alle immense colonne doriche. Esistono altri due dipinti di Hayez con lo stesso soggetto omerico ma con evidenti varianti compositive, uno presentato all’esposizione dell’Accademia veneziana nel 1813 e l’altro che costituisce il bozzetto preparatorio, collocabile tra il 1814 e il 1815, della tela napoletana.
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L’ultimo bacio dato a Giulietta da Romeo
1823
olio su tela; 291 x 201,8
Tremezzo (Como), Villa CarlottaLa vicenda tragica dei due amanti shakespeariani, divenuta poi emblema del sentimento romantico, deve proprio ad Hayez la sua immensa fortuna popolare. A Giulietta e Romeo sono ispirate, infatti, anche altre opere eseguite successivamente dall’artista (tre dipinti del 1825 e due del 1830) sino alla trasposizione, a partire dal 1859, di questo motivo nella serie del Bacio. Il dipinto del 1823 divenne una delle opere di culto dell’Ottocento romantico, grazie anche alle molte riproduzioni e riduzioni in incisione, miniatura, smalto e cammeo, incoraggiate dal celebre e colto collezionista Giovanni Battista Sommariva, committente dell’opera. Erano molti gli elementi del quadro che suscitavano ammirazione: la fedele ricostruzione dell’ambiente, i riferimenti formali all’Adultera di Tiziano, la sontuosa resa dei costumi, oltre che, naturalmente, il senso poeticamente romantico che ispirava tutta la composizione. La legittimazione definitiva e decisiva per l’affermazione della pittura storica a sfondo letterario avvenne, però, nel 1830, quando Defendente Sacchi consacrò il dipinto, a livello tematico e formale, come un exemplum della nuova poetica romantica, antimitologica e a sfondo “moderno”. Fu esposto a Brera nel 1823 insieme a un altro piccolo dipinto (oggi disperso) commissionato dal conte di Schonborn–Wiesentheid, tratto dalla fonte più antica (la novella di Luigi da Porto) e rappresentante Il matrimonio di Giulietta e Romeo. In effetti, l’opera risulta assai preziosa per l’evidenza realistica dei dettagli dell’interno “fiammingo” e per la naturalezza di aspetto e di atteggiamento della protagonista femminile, che riproduce la fisionomia di Carolina Zucchi, amante di Hayez, utilizzata come modella anche in altre opere.
IconografiaVenere che scherza con due colombe (Ritratto della ballerina Carlotta Chabert)
1830Il dipinto, eseguito a Trento presso lo stesso committente, il conte Girolamo Malfatti amante della donna ritratta, suscitò un’ampia e vivacissima polemica tra romantici e classicisti quando fu esposto a Brera nel 1830. Lo scandalo venne suscitato dalla scelta tematica di Venere, la quale avrebbe dovuto meritare, per rispetto alla ortodossia mitologica, una trasposizione più idealizzata del proprio corpo nudo, invece di un così crudo realismo che esaltava, tra l’altro, la scorrettezza anatomica della modella. Il partito romantico, invece, si era schierato a favore del quadro, richiamandosi alla pratica dell’amato Tiziano che aveva spesso dato alle sue Veneri le fattezze delle cortigiane del proprio tempo. La straordinaria resa naturalistica del grande nudo femminile ci trasmette ancora oggi la carica polemica dell’immagine di una quasi imbarazzante carnalità, la quale segna una significativa distanza dalla marmorea convenzionalità del modello classico, perseguito da altri pittori contemporanei di Hayez, come l’amico Pelagio Palagi. Il modulo classico e canoviano viene trasposto qui nella chiave romantica del confronto sulla verità del modello e di Tiziano, incontrando pienamente, nonostante le accuse dei conservatori, il gusto di un collezionismo disimpegnato sempre più presente. La plasticità del corpo di un nitore quasi astratto ricorda la bellezza delle odalische di Ingres e per questo, forse, fu apprezzato particolarmente da Margherita Sarfatti, promotrice del gruppo Novecento, che, nel 1925, citò il quadro di Hayez in un suo scritto come “più commosso e meno freddo delle altre tele”.
IconografiaLa Maddalena penitente
1833L’esplicito riferimento formale per questo bellissimo e sensuale dipinto è la Maddalena penitente (1790) del Canova, opera molto amata in età romantica e già ripresa da Hayez in un altro quadro, con lo stesso soggetto, eseguito nel 1825 per il barone Ciani. L’opera in questione, presentata a Brera nel 1833, fu commissionata, invece, dal conte Giuseppe Crivelli, appartenente alla nota famiglia milanese di tendenze liberali, che aveva già avuto da Hayez due quadretti con “Bagni di ninfe” esposti nel 1831. L’inconsueto realismo di questa Maddalena, evidentemente apprezzato dal committente, suscitò reazioni moralistiche da parte della critica contemporanea, che sottolineò l’impudicizia e il senso di profanazione derivante da una nudità così esplicita e conturbante. Mentre il fondo paesistico risulta assolutamente decorativo e convenzionale, la figura nuda della Maddalena, che si offre in tutta la sua “scandalosa” sensualità, sembra palpitare di vita reale nella posa morbida e naturale, nella mirabolante cascata di capelli e nello sguardo fisso e malinconico che sembra colto dal vero. L’impostazione essenziale e diretta del soggetto diverrà una caratteristica sempre più presente nelle opere di Hayez, che fu, tra l’altro, un grande interprete della bellezza femminile. La sua consacrazione europea come capofila della scuola romantica in Italia passò, dunque, attraverso opere di questo genere, contrastate, discusse e offerte al libero giudizio del pubblico, cui seguivano, poi, vere e proprie gare tra i collezionisti per averle.
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Loth con le figlie
1833
olio su tela
Collezione privataQuesto capolavoro della maturità rientra tra quelle opere dell’artista in cui un tradizionale tema biblico veniva rappresentato esaltando quelle connotazioni erotiche e sensuali, già implicite nel soggetto, ma amplificate ulteriormente per compiacere la committenza. L’opera, solo recentemente ricomparsa in collezione privata, aveva suscitato scalpore per la scabrosità del soggetto e per la sontuosità formale quando era stata esposta nel 1833 a Brera su commissione del milanese Giovanni Melli, per poi venire incisa da Domenico Bonatti, e ripresa in una nuova versione dallo stesso Hayez nel 1835. Come nella complementare Betsabea al bagno, anche in questa scena biblica i nudi delle tre figure vengono esaltati dall’ambientazione paesistica scabra ed esotica e dalla conduzione stilistica pulita e nitida. La candida figura della figlia sdraiata possiede, inoltre, un’espressività di definizione psicologica, sottolineata, insieme ad altri dettagli ammirevoli, nella recensione dell’Ambrosoli, apparsa sull’“Eco” in occasione dell’esposizione del 1833: “…il gruppo delle tre figure è perfettamente composto: il nudo è condotto con singolare maestria: il contrasto tra il vecchio corpo del padre, e le carni fresche e gentili delle figliuole è di bellissimo effetto: gli scorti, le estremità, il colorito, tutto insomma è da tutti lodato…”.
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Betsabea al bagno
1834
olio su tela; 180 x 140
Collezione privataL’iconografia biblica è appena riconoscibile attraverso la piccola figura sfumata del re David, nascosto dalle fronde sull’estremo margine superiore, e gli abiti egizi dell’ancella che accentuano, in realtà, il carattere esotico della scena. Il tema della bella Betsabea al bagno, comprensibilmente gradito ai committenti, ebbe molta fortuna in Hayez (che lo affrontò quattro volte) e presso altri artisti del tempo poiché univa generi differenti: il nudo, il quadro storico–religioso e quello di gusto erotico e disimpegnato della bagnante. Tutta la composizione ruota intorno al nudo levigato di Betsabea, plasmato dalla luce che piove dall’alto lasciando in ombra solo il paesaggio e certe parti delle figure. Alla partitura grafica, particolarmente precisa e raffinata, corrisponde una stesura cromatica dai toni generalmente smorzati e freddi, a eccezione dei costumi delle ancelle accesi di un rosso vivo. La bellezza ideale di Betsabea, che riecheggia il classicismo seicentesco del Reni e del Domenichino, sembra anticipare il purismo che Hayez prediligerà nelle opere degli anni successivi. Non è un caso che il dipinto, firmato e datato, abbia avuto una traduzione grafica da parte di Bartolomeo Soster, teorico del purismo.
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Caterina Cornaro spodestata dal regno di Cipro
1842
olio su tela; 121 x 151
Bergamo, Accademia CarraraLe delusioni politiche e civili degli anni Quaranta faranno di Hayez il popolarissimo interprete del mito di Venezia, qui interpretato in senso tragico e teatrale attraverso le suggestioni letterarie e romanzesche della vicenda dell’infelice regina di Cipro, spodestata dal trono e confinata nel castello di Asolo, resa popolare nella tragedia di Scribe e musicata nel 1841 da Fromental Halevy, nel 1842-1843 da Donizetti e nel 1846 da Pacini. Il dipinto di Hayez, commissionato da Antonio Frizzoni (della nota famiglia bergamasca di collezionisti e conoscitori) risente del tipico effetto del “colpo di scena”, proprio della dinamica teatrale, qui sintetizzato nelle pose e nei gesti dei personaggi e nella distribuzione della luce. Giorgio Cornaro, dritto in piedi davanti alla regina sua parente, con il volto impassibile, apre l’imposta della finestra per mostrare alla povera Caterina che sulla fortezza dell’isola sventola il veneto stendardo. La regina esprime, nella sua posa malferma, sgomento, delusione e dignitosa rabbia. La sintesi scenica è tutta concentrata su questo dialogo di sguardi e di gesti, e sulla luce che, con la violenza di un riflettore, investe l’abito dallo sfarzo orientale della regina. Nell’ambito della produzione di Hayez, l’opera rappresenta un momento tematico e stilistico di passaggio tra i grandi quadri di storia veneziana, dedicati ai Foscari (1842-1844), Vettor Pisani (1840), Marin Faliero (1844), e quelli di costume e leggenda, come Accusa segreta (1847-1848) e Il consiglio della vendetta (1851). Inoltre il soggetto si prestava alla fusione tra il genere storico e il filone orientalista.
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Incontro tra Esaù e Giacobbe
1844
olio su tela; 208 x 300
Brescia, Civica pinacoteca Tosio MartinengoIl dipinto, che venne presentato a Brera nel 1844, aveva un lungo titolo che descriveva nei dettagli tutta la scena: “Giacobbe, incontratosi con Esaù, e inchinandosi a lui sette volte, gli mostra il gregge e i cammelli che gli aveva mandati in dono, e gli presenta nello stesso tempo la propria moglie e i propri figli”. Eseguita per Camillo Brozzoni, uno dei più importanti collezionisti del tempo, l’opera rivela una qualità pittorica altissima, legata a un’originalissima declinazione del linguaggio purista tedesco (acquisito durante un viaggio a Monaco nel 1837), interpretato attraverso il recupero dei modi formali della tradizione del Settecento veneto, come Sebastiano Ricci e Tiepolo, dai quali risultano evidenti suggestioni. La composizione, che non aveva suscitato all’epoca molti entusiasmi a causa di una mancata verosimiglianza storica e di una presunta “debolezza” di pensiero, possiede una essenzialità costruttiva particolarmente rigorosa nelle scelte cromatiche e grafiche e nei rapporti volumetrici tra le figure, immerse nella semplicità formale del paesaggio. Una posizione centrale assume la figura della moglie di Giacobbe, ferma e immobile come una statua antica, che illumina la scena attraverso il candore abbagliante delle sue vesti e il colorito perlaceo della sua pelle.
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La Meditazione
1851
olio su tela; 92,3 x 71,5
Verona, Civica galleria d’arte modernaIl dipinto, insieme a una precedente versione del 1850, segna un momento di svolta nella pittura di Hayez, orientata e condizionata ideologicamente dai tragici eventi politici del 1848 che il pittore, a Milano, aveva vissuto in prima persona. Messo da parte il vero e proprio genere storico, Hayez aveva già, negli anni Quaranta, elaborato un suo personalissimo repertorio romantico trasferendo una valenza politica e civile a una serie iconografica definita genericamente Malinconia e strettamente collegata con le pensierose eroine bibliche (Rebecca e Tamar) e con le seducenti Bagnanti o Odalische, emblema già di un malessere esistenziale. Dieci anni dopo, circa, in seguito alla delusione risorgimentale del 1848, la “malinconia” della coscienza contemporanea si trasforma in Meditazione. Nella prima versione, esposta a Brera con il titolo di Meditazione sopra l’Antico e il Nuovo Testamento, il motivo patriottico del dolore dell’Italia sconfitta veniva celato da un travestimento religioso. In questa seconda Meditazione, del 1851, eseguita per il conte veronese Giacomo Franco, collezionista di arte contemporanea dai sentimenti liberali, il messaggio politico si interpreta più chiaramente attraverso gli oggetti tenuti in mano dalla sensuale figura femminile: la finta Bibbia con la scritta “Storia d’Italia” (presente anche nella versione del 1850) e una luttuosa croce del martirio risorgimentale sulla quale compare la scritta in rosso: “18.19.20.21.22 marzo /1848”, la data delle Cinque giornate di Milano. La figura, particolarmente intensa ed espressiva, è raffreddata nella sua carica emozionale dal cromatismo perlaceo e lunare, che crea un suggestivo gioco di chiaroscuri.
Il bacio
1859-1867Questa versione del celebre dipinto di Hayez presentato con grande successo a Brera nel 1859 ed eseguito per il conte Alfonso Maria Visconti di Saliceto, dovrebbe essere la replica inviata all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 che aveva riscosso l’ammirazione del vecchio Rossini, che si era subito congratulato con l’amico pittore. Questa versione parigina che, a prima vista, si differenzia dall’altra soltanto per il particolare della veste bianca abbandonata sulla scala, presenta, in realtà, un dettaglio interessante che rivela un significato anche politico del dipinto. Il risvolto del mantello del giovane uomo non è più marrone ma di un bel verde brillante, colore che insieme al bianco del panno sulla scala, al rosso della calzamaglia e all’azzurro della veste della donna crea un preciso richiamo alle bandiere dei due stati: la Francia e l’Italia, dalla cui alleanza era nata la nuova nazione italiana. Per questo motivo questa versione del dipinto, con le due varianti formali e cromatiche, fu mandata a Parigi, dove ottenne un grande successo. Anche dietro la prima versione del Bacio, seppure più semplice e con meno dettagli, si nascondeva, in realtà, un significato politico legato alla circostanza in cui venne presentata: il 9 settembre del 1859, a tre mesi dall’ingresso di Vittorio Emanuele e del suo alleato Napoleone III a Milano. Il Bacio era un gesto romantico, poetico e sensuale, ma era anche simbolo di concordia politica, alleanza, pace e unità. La scelta del luogo in cui è ambientata la scena - un misterioso castello medievale - e la caratterizzazione dei costumi sono strettamente legate al gusto dell’artista per la pittura di storia e costituiranno, insieme al senso di coinvolgente trasporto sensuale delle due figure, gli elementi fondamentali per le successive citazioni cinematografiche, tra cui la più nota è certamente la scena dell’abbraccio nel film Senso di Visconti.
Iconografia