Veronese: biografia
Figlio dello scalpellino veronese Gabriele, Paolo Caliari iniziò la sua attività artistica nella bottega di Antonio Badile a Verona, dove è registrato come garzone nel 1541. La cultura artistica veronese degli anni della formazione del giovane pittore è dominata dal manierismo mantovano ed emiliano e dal classicismo sanmicheliano. La sua prima opera documentata, del 1548 circa, è la Pala Bevilacqua Lazise per San Fermo (oggi al Museo di Castelvecchio di Verona). Nei primi anni del sesto decennio del secolo, il pittore lascia Verona e, nel 1551 collabora agli affreschi di Villa Soranza a Treville, insieme a Zelotti e Canera. Del 1552 è una pala per il duomo di Mantova, raffigurante Le tentazioni di sant’Antonio (Caen, Musée des Beaux-Arts), che segna il momento di maggior interesse per la pittura di Giulio Romano. Nel 1553 giunge a Venezia, chiamato con Zelotti a lavorare in Palazzo ducale, e dove partecipa a una fortunata serie di importanti commissioni, ponendosi come antitetico rispetto alla tradizione tonale veneziana. Nel 1556 partecipa alla decorazione della Biblioteca marciana e, nello stesso anno ha inizio la decorazione di San Sebatiano, che si protrarrà sino al 1567. Del 1561 sono invece gli importanti affreschi della Villa Barbaro a Maser e nel refettorio della chiesa di San Giorgio Maggiore a Venezia. Dopo l’esecuzione di una serie di grandi pale, torna a Verona nel 1565 per sposare Elena Badile, la figlia del suo primo maestro, e dove lavora alternando commissioni veronesi e veneziane. Le ricostruzioni in Palazzo ducale dopo gli incendi del 1574 e 1577 vedono attivamente partecipe Veronese e la sua bottega, nelle sale del Collegio, dell’Anticollegio, e del Maggior Consiglio, dove progetta anche l’affresco con il Paradiso, realizzato dal Tintoretto solo dopo la sua morte. Più complessa è l’attività tarda del pittore, che mostra un’estrema capacità di aggiornamento, in particolare nei dipinti mitologici eseguiti per Rodolfo II di Praga, e nel ciclo con le Storie bibliche di Vienna, che mostrano un avvicinamento alla raffinata pittura rudolfina.
Veronese: le opere
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Sant’Antonio abate tentato dal demonio
1552-1553
olio su tela; 198 x 151
Caen, Musée des Beaux-ArtsIl dipinto fu commissionato al Veronese nel 1552 dal cardinale Ercole Gonzaga per uno dei quattro nuovi altari del duomo di Mantova, da lui fatti rinnovare in stile rinascimentale da Giulio Romano. L’opera fu poi prelevata dalle truppe francesi e, dal 1803, è conservata al museo di Caen. Dipinta a Mantova durante il breve soggiorno del pittore nella città, tra il 1552 e il 1553, la tela riflette l’influenza delle composizioni di Giulio Romano e di Michelangelo, in particolare nella muscolatura del demonio, probabile citazione del Torso Belvedere e nella possente figura del santo atterrato. La bella personificazione tentatrice che compare sulla sinistra, reca invece ancora l’eco del manierismo emiliano.
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Giove che scaccia i Vizi
1553 circa
olio su tela; 560 x 330
Parigi, LouvreNel 1553 Paolo Caliari è a Venezia, chiamato per dipingere, insieme allo Zelotti, alcune tele destinate ai soffitti delle sale dei Dieci in Palazzo ducale, il cui incarico era stato affidato a Giambattista Ponchino. La prima sala a essere ultimata, nel 1553, fu quella dell’Udienza, in cui il Veronese eseguì quattro dei dipinti principali, tra cui Giove che scaccia i Vizi, asportato durante le requisizioni napoleoniche nel 1797 e oggi sostituito da una copia. Tutte le tele di Paolo sono connotate dall’utilizzo forte e vibrante del colore, e da una viva luminosità che provoca numerosi riflessi cangianti che alleggeriscono la plasticità delle figure.
IconografiaSan Marco che incorona le Virtù
1554 circaNel 1553 Paolo Caliari è a Venezia, chiamato per dipingere, insieme allo Zelotti, alcune tele destinate ai soffitti delle sale dei Dieci in Palazzo ducale, il cui incarico era stato affidato a Giambattista Ponchino. La prima sala ad essere ultimata, nel 1553, fu quella dell’Udienza, mentre quella della Bussola fu condotta interamente dal Caliari. Il tema fu dettato da Daniele Barbaro, ed era volto all’esaltazione del buon governo della città di Venezia, simboleggiato dalla figura di san Marco, arditamente scorciata, che incorona le personificazioni delle Virtù. Anche questa tela fu asportata nel 1797 dalle truppe napoleoniche per essere portata a Parigi, e fu sostituita da una copia nel XIX secolo.
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La “bella Nani”
1555-1560 circa
olio su tela; 119 x 103
Parigi, Musée du Louvre,Il bellissimo Ritratto di gentildonna, conservato al Louvre, è senza dubbio l’opera più interessante e misteriosa della non copiosa produzione ritrattistica muliebre di Veronese. Chiamato La bella Nani dal nome della famiglia veneziana presso la quale si presume che la tela si trovasse ai tempi dello storico Boschini che ne diede notizia, è stato recentemente identificato con un possibile ritratto della moglie dello stesso Veronese, Elena Badile, ma senza nessun riferimento documentario a supporto di tale tesi. Ciò che risalta, piuttosto, è l’aspetto poco caratterizzato e idiomatico della sua espressione, quasi si trattasse di un ritratto di donna ideale, secondo il canone cinquecentesco della classica “descriptio personae”, con il perfetto ovale del viso, l’incarnato candido, i capelli dorati, gli occhi cerulei e il mento piccolo con una minuscola fossetta al centro. La bellezza algida e canonica della donna si contrappone, però, alla ricca elaborazione dei dettagli dell’abito così come lo sguardo assente e il gesto schivo delle mani contrastano, forse, con il taglio ravvicinato dell’inquadratura. Inoltre, l’aspetto, l’abbigliamento e la posa della donna ricordano anche quelli di un’altra bellezza muliebre che Paolo aveva affrescato, in quello stesso periodo, nella Villa Barabaro a Maser, identificata con il ritratto della padrona di casa, Giustiniana Giustinian, moglie di Marcantonio Barbaro.
Archivio Giunti/Foto Rabatti-Domingie, Firenze
Annunciazione
1555 circa
olio su tela; 193 x 291
Firenze, UffiziL’opera, accolta definitivamente nel catalogo del Veronese all’inizio del XX secolo, fu acquistata dalla corte granducale nel 1654, presso il veneziano Paolo del Sera. Attribuita al periodo giovanile del pittore, è accostabile all’Incoronazione della Vergine nella sacrestia della chiesa veneziana di San Sebastiano, dove l’artista fu chiamato a lavorare nel 1555. I colori chiari e luminosi, i caldi effetti luministici contrastano con la simmetrica divisione spaziale scandita da colonne, cui fa da sfondo un’arcata ionica da cui s’intravede un paesaggio ordinato.
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Assunzione della Vergine
1558 circa
olio su tela; 340 x 455
Venezia, Santi Giovanni e PaoloL’opera fu eseguita, insieme ad altre due tele raffiguranti l’Annunciazione e l’Adorazione dei pastori, per la chiesa veneziana di Santa Maria dell’Umiltà alle Zattere, da dove fu rimossa nel 1806 dopo la soppressione della chiesa, che apparteneva alla Compagnia di Gesù. Le tre tele si distinguono per un’elevata qualità cromatica e invenzione compositiva, che hanno fatto parlare di carattere prebarocco per la pittura veronesiana di questo periodo.
IconografiaBacco dona il vino agli uomini
1560-1561La Villa di Maser (Treviso), costruita da Andrea Palladio tra il 1550 e il 1560 (e ornata da statue e stucchi di Alessandro Vittoria) per Daniele Barbaro (patriarca di Aquileia) e suo fratello Marcantonio (ambasciatore della Repubblica di Venezia) venne decorata da Paolo Veronese con uno splendido ciclo di affreschi al piano nobile. In questa sezione del soffitto, dedicata agli dei dell’Olimpo, assistiamo a una scena ariosa e luminosa, ambientata su un cielo aperto sul quale fluttuano i personaggi. L’atletico Bacco visto di schiena in uno scorcio dal basso distribuisce il vino, versandolo direttamente da un grappolo d’uva in una coppa offertagli da uno dei due uomini sulla sinistra. La rappresentazione della musica, insieme a deliziosi putti danzanti che volteggiano tenendo in mano strumenti musicali, risulta una costante dell’intero ciclo decorativo, in cui predominano la pienezza, l’armonia e il ritmo spaziale. Attraverso questo linguaggio fresco, immediato e raffinato, Veronese rende omaggio alla cultura dei fratelli Barbaro e alla loro residenza dedicata allo studio delle arti e alla contemplazione intellettuale.
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Giustiniana Giustiniani con la nutrice
1560-1561
affresco
Maser, Villa Barbaro, sala dell’OlimpoLa decorazione della villa dei fratelli Daniele e Marcantonio Barbaro a Maser, presso Asolo, completata attorno al 1558 dal Palladio, può essere considerata la più celebre impresa decorativa del Veronese. Benché gli affreschi non siano stati citati da Palladio nei suoi Quattro libri dell’architettura, le architetture dipinte del Veronese, la concezione dello spazio, della luce e dei colori, dimostrano una perfetta aderenza con il contenitore palladiano, tanto da far supporre una comune regia da parte dei due artisti. La volta Sala dell’Olimpo, la principale dell’edificio, è concepita come un’intelaiatura architettonica aperta nel cielo. Mentre il centro del soffitto è occupato da figurazioni allegoriche, alla sommità delle due pareti appaiono due loggiati dipinti, a uno dei quali si affaccia Giustiniana Giustiniani, la padrona di casa, accompagnata dall’anziana nutrice.
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Venere e Adone
post 1561
olio su tela; 123 x 174
Augsburg, Staatliche KunstsammlungenIl noto tema ovidiano, Venere che tenta di dissuadere Adone dalla caccia, da cui il giovane non farà ritorno, e in parte lo schema compositivo utilizzato da Veronese, si trovano più volte nelle opere di Tiziano, anche se qui le dense atmosfere tizianesche appaiono schiarite e rarefatte. Il tono fastoso e gradevole, che appare anche in numerose opere di piccolo formato degli stessi anni, e la partitura cromatica, giocata su toni caldi e festosi, portano infatti al superamento dell’iniziale modello.
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Nozze di Cana
1562-1563
olio su tela; 669 x 990
Parigi, LouvreLa grande tela fu eseguita per il refettorio del convento benedettino in San Giorgio Maggiore a Venezia tra il 6 giugno 1562, data in cui fu stipulato il contratto, e il 6 ottobre 1563, in cui il pittore firmò la ricevuta del compenso. L’eccezionale ampiezza della composizione, magnificata a partire dal Vasari, l’innovazione nella resa iconografica del tema evangelico, e la presenza di un altissimo numero di personaggi, alcuni dei quali riconoscibili, sono prove del grandioso linguaggio decorativo del Veronese negli anni successivi agli affreschi della villa Barbaro. L’opera fu asportata dalle truppe francesi alla fine del XVIII secolo.
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Sacra Famiglia e santi (Pala di San Zaccaria)
1564
olio su tela; 328 x 188
Venezia, Gallerie dell’AccademiaIl dipinto fu eseguito per l’altare della sacrestia nella chiesa veneziana di San Zaccaria, da dove fu prelevato nel 1797 dalle truppe francesi per essere condotto a Parigi, da dove fece ritorno nel 1815. L’opera, come la coeva produzione del Veronese, si caratterizza per i colori festosi e gli effetti splendenti della luce, mentre il persistere della cultura manieristica si scorge nella calcolata asimmetria del gruppo principale e nelle pose caricate di alcuni santi.
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Alessandro Magno e la famiglia di Dario
1565 circa
olio su tela; 236,2 x 474,9
Londra, National GalleryLa storia del grande conquistatore del mondo antico, Alessandro Magno, era divenuta nella cultura del Cinquecento un ideale percorso “laico” di comportamento e un modello di virtù morale. Non furono le sue imprese belliche a destare questo particolare interesse ma, piuttosto, in un senso più intellettuale e “umanistico”, le capacità che si attribuivano ad Alessandro di superare le naturali viltà dell’animo umano. In questo senso, l’episodo dipinto da Veronese e commissionato dal nobile e colto veneziano Francesco Pisani, risulta il più emblematico. Vi è, infatti, rappresentato il momento in cui il re persiano Dario, prigioniero di Alessandro dopo la battaglia di Isso, rende omaggio insieme alla sua famiglia (la moglie, la madre e le due figlie) al sovrano che aveva garantito loro un trattamento regale e dignitoso. L’errore subito perdonato fu quello dell’anziana madre di Dario, Sisisgambi, che inginocchiatasi secondo il costume persiano di fronte al nuovo re, si prostrò in realtà ai piedi di Efestione, amico fedele di Alessandro che gli stava accanto. Avvertita dell’imbarazzante errore, l’anziana donna invocò il perdono di Alessandro che, non peccando di superbia, glielo concedette con clemenza e rispetto. In questa occasione, pertanto, il personaggio di Alessandro Magno sembra esibire tutte le principali virtù e le qualità richieste a un gentiluomo dall’etica cinquecentesca, nella quale anche Francesco Pisani, raffinato intellettuale e protettore di artisti e poeti, si identificava pienamente.
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Daniele Barbaro
1565-1567 circa
olio su tela; 121 x 105,5
Amsterdam, RijksmuseumL’elegante Daniele Barbaro (1514–1570), uomo di chiesa e teorico dell’architettura e uno dei committenti più importanti di Veronese, è ritratto seduto, in atteggiamento riflessivo e nella posa “d’udienza” riservata a papi e cardinali (egli era, infatti, patriarca di Aquileia). Sul tavolo vi sono i due volumi dei suoi commentari al Trattato di Architettura di Vitruvio, pubblicati “in folio” a Venezia nel 1556. I disegni che accompagnano il testo scritto erano di Palladio (anche se qui sono modificati nell’ordine rispetto all’originale), che era stato anche l’architetto della famosa villa dei Barbaro a Maser, affrescata dal Veronese. Con questo bellissimo ritratto Paolo non vuole esaltare soltanto l’erudito umanista e il dotto scienziato, ma vuole soprattutto celebrare la scienza vitruviana, fondamento di tutto il Rinascimento, in quanto fusione intellettuale e conoscitiva tra la teoria e la pratica dell’architettura e il disegno, la decorazione figurativa e la speculazione astronomica e cosmologica. A tal fine Veronese, nel rappresentare il trattato di Vitruvio, opera una selezione di fantasia di testi e immagini per dimostrare in una sintesi visiva le diverse sfere di interesse del più famoso testo di architettura dell’antichità.
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Ritratto di scultore (Alessandro Vittoria?)
1570-1585 circa
olio su tela; 110,5 x 81,9
New York, Metropolitan MuseumNel ritratto di questo scultore, in cui si è voluto riconoscere il volto di Alessandro Vittoria, che aveva partecipato anch’egli (con stucchi e sculture) alla decorazione della Villa Barbaro a Maser, Veronese costruisce una figura essenziale e solida in un ambiente austero e appena caratterizzato, in cui vengono esibiti, però, gli oggetti “del mestiere”. La statuetta-modello che l’uomo tiene in mano è probabilmente quella per il San Sebastiano, scolpito nel 1561-1562 per la chiesa veneziana di San Francesco della Vigna, a sua volta ispirato allo Schiavo morente di Michelangelo (oggi al Louvre). Il frammento di torso sulla sinistra, sul tappeto del tavolo, rivela simbolicamente la prima fonte d’ispirazione di Alessandro Vittoria, ossia l’antico. La testa dello scultore ritratto, dallo sguardo serio e malinconico, corrisponde verosimilmente a quella del busto eseguito da Vittoria dopo il 1595 per il suo monumento sepolcrale in San Zaccaria a Venezia.
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Allegoria della battaglia di Lepanto
1571-1573
olio su tela; 169 x 137
Venezia, Gallerie dell'AccademiaIl piccolo dipinto, originariamente collocato sull’altare del Rosario nella chiesa di San Pietro Martire a Murano, nasce probabilmente come ex-voto commissionato da Pietro Giustiniani, il quale aveva preso parte, il 7 ottobre del 1571, alla famosa battaglia navale di Lepanto contro la flotta turca, sconfitta proprio grazie all’intervento delle navi veneziane, insieme al papato e alla Spagna. Nell’ultimo quarto del Cinquecento, in particolare, era molto diffusa l’immagine e la retorica autocelebrative di Venezia come Santa repubblica paladina della cristianità. Nell’opera allegorica di Veronese risalta particolarmente il gioco tonale e luministico nella parte bassa del quadro su cui si svolge la battaglia, illuminata da raggi proveniente dall’alto. Qui, sopra una coltre di nubi, i santi patroni delle tre potenze alleate (Pietro, Rocco e Giacomo) insieme a santa Giustina (protettrice della vittoria, avvenuta nel giorno della sua festa) e a una Fede biancovestita ringraziano e fanno riverenza alla Vergine Maria per la protezione accordata all’impresa. Come risposta, un angelo, sulla destra, sporgendosi dalle nuvole, invia dardi fiammeggianti verso le navi musulmane, mentre il pugnale del martirio stretto in mano da Giustina risalta al centro della composizione con la punta rivolta verso i combattenti in basso, come a santificare il sacrificio dei caduti nel fatidico scontro con gli infedeli.
Venere, Marte e Amore col cavallo
1575 circaLa piccola e preziosa tela arrivò alla Pinacoteca Sabauda dopo la fine della seconda guerra mondiale, mentre si trovava ancora a Venezia nel 1648. Il tema, affrontato da Veronese anche in altri lavori, è quello dell’amore divino tra Marte e Venere, simbolo neoplatonico dell’aggressiva forza maschile dominata dalla sublime potenza dell’amore femminile. Qui, però, la scena è alquanto originale, soprattutto per l’irrompere quasi ironico del cavallo grigio del dio, che, condotto per le redini da Amore, si affaccia distogliendo i protagonisti dal loro incontro amoroso già in fase avanzata. L’improvvisa apparizione del cavallo, che forse vuole richiamare il padrone all’urgenza di altre occupazioni o piuttosto alludere simbolicamente al gioco amoroso, avviene dal nulla, da una scala, da dietro una ringhiera o piuttosto da un luogo mentale e inesistente. La coppia di divinità, inoltre, è immersa in un’atmosfera normale e quotidiana, in una camera da letto e in un atteggiamento totalmente umano. Venere, quasi nuda, è comunque acconciata e ingioiellata come una nobile sposa veneziana. Un raffinato gioco luministico rende ricca e fastosa l’intera struttura cromatica della figurazione.
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Matrimonio mistico di santa Caterina
1575 circa
olio su tela; 337 x 241
Venezia, Gallerie dell’AccademiaLa pala fu eseguita per l’altare maggiore della chiesa veneziana di Santa Caterina, ed è alle Gallerie dell’Accademia dal 1925. E’ tra le opere più ammirate del Veronese, a partire dal Sansovino (1581) e dal Boschini (1660), che ne sottolinearono lo splendido cromatismo. Ma il colore smagliante sembrava perduto in seguito a maldestri interventi conservativi condotti nel XVIII e XIX secolo, e solo un nuovo restauro condotto negli anni Ottanta del Novecento ha permesso di recuperare il sontuoso effetto coloristico.
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Ratto di Europa
1575-1580
olio su tela; 240 x 303
Venezia, Palazzo Ducale, Sala dell'AnticollegioDonato alla Serenissima dal nobiluomo veneziano Bertucci Contarini, il dipinto, straordinario per vivacità cromatica e luministica, fu collocato nel 1713 nella sala dell’Anticollegio di Palazzo ducale dove ancora risiede. Il mito del rapimento della principessa fenicia Europa da parte di Giove innamorato, sotto le sembianze di un toro, viene elegantemente descritto da Veronese secondo una perfetta sequenza in tre tempi. In primissimo piano, a sinistra, la giovane e bionda Europa, con i capelli intrecciati di fiori di campo, siede fiduciosa e ignara sul falso toro inghirlandato che sta seduto sull’erba baciandole amorevolmente un piede. Le ancelle la sostengono e le accomodano le vesti e i gioielli, mentre tre graziosi amorini volano gettando fiori dall’alto. Nel piano intermedio, il toro guidato da Amore porta Europa sul dorso (aiutata anche dalle ancelle) e si avvia verso il mare. Infine sullo sfondo viene raccontato il finale della storia: il toro si getta in mare, portando con sé Europa per sempre; la sensuale principessa, accompagnata ancora dagli amorini in volo, si volge verso le compagne rimaste sul lido, con un gesto di invocazione di aiuto che, qui sembra piuttosto un saluto affettuoso. Quest’opera sarà uno dei modelli più apprezzati dagli artisti protagonisti, già agli esordi del Settecento, del revival veronesiano, soprattutto Sebastiano Ricci e Giambattista Tiepolo.
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Mercurio, Erse e Aglauro
1576-1584
olio su tela ; 232,4 x 173
Cambridge, Fitzwilliam MeseumFirmato sul plinto della balaustra "PAULUS CALIAR/VERONESIS FACI" e di possibile provenienza dalla collezione imperiale di Rodolfo II, il dipinto affronta l’episodio mitologico in una specifica direzione allegorica moraleggiante. Mercurio, che vediamo avanzare sulla sinistra, è innamorato della bella e virtuosa ateniese Erse, che siede disponibile e pensierosa sul lato opposto e “luminoso” della composizione. Sopra di lei la statua della casta e savia Minerva e ai suoi piedi il fedele cagnolino che guarda indispettito la sorella cattiva Aglauro. Questa, invidiosa di Erse, cerca di ostacolare l’ingresso del corteggiatore Mercurio, il quale però con il tocco del caduceo l’ha fatta già cadere per terra e sta per tramutarla in livido sasso (come racconta Ovidio nelle Metamorfosi). All’interno del dipinto sono molti gli elementi simbolici che alludono alla contrapposizione tra amore lecito e amore illecito e ingiusto perché frutto di invidia e gelosia: la statua di satiressa che si affaccia da una piccola alcova in direzione di Aglauro, che allude alla passione sfrenata (contrapposta alla statua di Minerva), le roselline sul tavolo e per terra, fiori di Venere e della sposa e, infine, il libro di musica sotto la mano di Erse e la lira da braccio, simboli della disponibilità della donna verso Mercurio, divino inventore della musica.
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Venere e Marte legati da Amore
1578 circa
olio su tela; 206 x 161
New York, Metropolitan Museum of ArtIl dipinto faceva parte di un gruppo di quattro tele eseguite per la corte praghese dell’imperatore Rodolfo II, raffiguranti, oltre a Venere e Marte legati da Amore, La Saggezza e la Forza, Ercole al bivio e Mercurio, Aglauro ed Erse. Oggi disperse tra vari musei, furono forse commissionate direttamente da Rodolfo, e ben si accordano, sia per i temi che per lo stile sofisticato, alla pittura patrocinata in quegli anni a Praga, in cui forme allungate, oscure allegorie e temi dall’evidente sfondo erotico erano tra le caratteristiche principali.
IconografiaGiuditta e Oloferne
1580 circaLa storia biblica di Giuditta, eroina ebrea, che, per liberare la città di Betulia dall'assedio degli assiri, sedusse e decapitò il generale Oloferne inducendo gli assediatori al ritiro, ebbe una grandissima diffusione tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, certamente per il suo contenuto moraleggiante e per la possibile interpretazione legata alla seduzione “casta” della bella Giuditta. La datazione del dipinto, nell’ambito della produzione del Veronese, non è sicura, oscillando dalla fine degli anni Cinquanta del XVI secolo al 1580 circa, quest’ultima più probabile per la provenienza di altre tele del maestro con quella data, dalla casa veneziana dei Cuccina. L’opera, infatti, appartenente nel Seicento al pittore e mercante franco-fiammingo Nicolas Renier, era stata venduta al conte Cuccina, mentre nel 1670 venne ceduta a Giuseppe Maria Durazzo e da questi ai Brignole-Sale di Genova. A partire dal 1580 circa, infatti, Veronese produsse alcune opere molto personali, dal colorito intenso, come il Sacrificio di Isacco (Museo del Prado, Madrid), questa Giuditta e Oloferne di Genova o l’ultima sua opera San Pantaleone guarisce un fanciullo (chiesa di San Pantaleone a Venezia). In questa scena di grande concentrazione e mistero, che Veronese affronta, come sempre, con teatralità, misura e armonia, si assiste a un magnifico rapporto di toni cromatici e a uno straordinario gioco luministico basato sui contrasti: l’oscuro corpo decapitato di Oloferne con i bianchi lenzuoli, o l'incarnato della serva con quello eburneo di Giuditta, sensuale ed elegantemente vestita e ingioiellata, come tutte le nobildonne di Veronese.
Iconografia