Giovanni Bellini: biografia
Figlio di Jacopo e fratello di Gentile, entrambi pittori attivi a Venezia, le sue opere giovanili testimoniano la formazione avvenuta presso la bottega paterna, ma anche un’autonoma attenzione all’opera di Alvise Vivarini. Al 1453 risale il matrimonio della sorella Nicolosia con Andrea Mantegna, pittore di cui subirà il forte ascendente, stemperando tuttavia l’asprezza del disegno in una sua personale cifra stilistica. La ricerca di Bellini è infatti condotta in primo luogo sui valori luministici, come emerge nella Preghiera nell’orto della National Gallery di Londra, nel Polittico di san Vincenzo Ferrer nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, e nella Pietà di Brera (1465 circa). Tra i dipinti dell’ottavo decennio si segnala la Pala Pesaro (1472-1474), già in San Francesco a Pesaro, opera grandiosa e di lucida impaginazione spaziale che rivela, accanto alla lezione di Piero della Francesca, la conoscenza della tecnica pittorica fiamminga. Nel 1479 sostituisce il fratello Gentile nei lavori alla sala del Maggior Consiglio di Venezia e nel 1483 è nominato pittore ufficiale della Repubblica. Alla fase centrale della sua produzione risalgono la Pala di San Giobbe, la Pala Barbarigo (Murano, San Pietro martire), il Trittico dei Frari, che coniugano la nobile grandiosità dell’immagine alla costante connotazione psicologica dei personaggi. L’artista in questi anni è a capo di una fiorente bottega da cui escono innumerevoli varianti del tema devozionale della Madonna col Bambino sullo sfondo di delicati paesaggi campestri. Alla fine del Quattrocento è generalmente collocata la cosiddetta Sacra Allegoria, oggi agli Uffizi; all’inizio del nuovo secolo, si mostra testimone attento delle novità introdotte nell’ambiente artistico veneziano dalla nuova generazione di pittori, da Sebastiano del Piombo a Tiziano, da Giorgione a Lotto. Gli esiti di questa apertura si colgono nella Pala di San Zaccaria (1505) e nella Pala di San Giovanni Crisostomo, oltre che nei sensibilissimi ritratti e nei dipinti profani, quali il Festino degli dei del 1514 (Washington, National Gallery), realizzato per Alfonso d’Este duca di Ferrara.
Giovanni Bellini: le opere
Archivio Giunti
Trasfigurazione
1460 circa
tempera su tavola; 134 x 68
Venezia, Museo CorrerIn quest’opera, già portella della pala d’argento dell’altare maggiore della chiesa veneziana di San Salvatore, Bellini si cimenta nella narrazione di un episodio della vita di Cristo, scegliendo quello che più di ogni altro preannuncia la Passione. La trasmutazione luminosa sul monte Tabor è pure una aperta manifestazione del dogma dell’incarnazione del Padre nel Figlio: Cristo appare, insieme a Mosè ed Elia, agli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo, a significare il passaggio del testimone dai profeti dell’Antico testamento ai protagonisti del Nuovo. Si tratta di una delle più brillanti prove della giovinezza dell’artista che, soprattutto nella resa dei panneggi e del paesaggio, mostra chiari i segni della lezione donatellesca e mantegnesca di Padova.
Archivio Giunti
Il sangue del Redentore
1460 circa
tempera su tavola; 47 x 34
Londra, National GalleryAll’interno di un recinto marmoreo arricchito di rilievi classici, davanti a un brullo paesaggio animato da sparute presenze umane, si erge la figura del Cristo, dal cui costato sgorga un lungo fiotto di sangue. Un angelo ai suoi piedi innalza il calice che custodirà il sacro liquido. Il soggetto si presta, come le numerose variazioni sul tema della Pietà e del Cristo risorto, all’utilizzo devozionale privato, stimolando nel fedele compassione e soggezione. Il pittore calca sul dato sentimentale e patetico e crea il modello italiano dell’immagine di meditazione, già codificata nella tradizione fiamminga.
Archivio Giunti
Pala Pesaro
1472-1474
olio su tavola; 262 x 240
Pesaro, Museo civicoL’opera si pone come spartiacque tra l’attività giovanile del pittore, largamente influenzata dalla lezione del padre Jacopo e da quella di Mantegna, e le prove della maturità. Fu eseguita per l’altare maggiore della chiesa pesarese di San Francesco. Nella pala centrale, con Cristo che incorona Maria tra i santi Paolo, Pietro, Gerolamo e Francesco, il maestro esibisce la perfetta padronanza delle conquiste spaziali e luministiche in un’impaginazione dai perfetti equilibri classici. Pone le figure in uno spazio essenziale, la cui profondità è scandita dal pavimento a intarsi marmorei, mentre un paesaggio collinare s’intravede alle spalle dei quattro santi che assistono alla scena. Nella predella e nei pilastri laterali, nei quali è certo l’intervento di almeno due altri pittori, s’accompagnano narrazione e icona. Sulla originaria appartenenza della Unzione di Cristo della Pinacoteca Vaticana alla pala i pareri degli studiosi sono assai discordi.
Archivio Giunti
San Francesco nel deserto
1477-1478
olio su tavola; 120 x 137
New York, Frick CollectionIl dipinto è costruito su una rigorosa esegesi delle fonti veterotestamentarie e di quelle francescane. Il santo, collocato sul monte della Verna (forse un momento prima che il cherubino scenda a imprimergli le stimmate), è rappresentato, grazie a un apparato di simboli inequivocabile, quale novello Mosè, novello Elia, novello Cristo, suprema guida degli eletti. La straordinaria cura con cui è reso il paesaggio è un inno alla bellezza e all’armonia del creato, davanti al quale Francesco, insieme al pittore, s’inchina. Per la profonda religiosità che emana, per la ricchezza iconografica, per l’alta qualità tecnica, il dipinto costituisce uno dei raggiungimenti più alti nell’arte rinascimentale.
IconografiaArchivio Giunti
Pala di San Giobbe
1480 circa
olio su tavola; 471 x 258
Venezia, Gallerie dell'AccademiaLa pala, che rappresenta la Madonna col Bambino, tre angeli musicanti e i santi Francesco, Giovanni Battista, Giobbe, Domenico, Sebastiano e Ludovico da Tolosa, fu posta nella seconda cappella a destra della chiesa francescana di San Giobbe, probabilmente come ex voto dopo la peste del 1478. Bellini (unico caso nella sua produzione) colloca la scena all’interno di un’abside di chiesa completamente chiusa al paesaggio, e dispone i personaggi in atteggiamenti articolati. Vera protagonista dell’opera è Maria, innalzata sul trono a enunciare il dogma dell’Immacolata concezione, terreno di violento scontro al tempo tra francescani e domenicani. La presenza di Domenico, intento a studiare per guadagnare gli insegnamenti che gli altri santi hanno ricevuto dalla semplice contemplazione della Vergine, è un segnale indubitabile della volontà dei committenti di intervenire nel focoso dibattito.
Archivio Giunti
Trittico dei Frari
1488
olio su tavola; 184 x 79 scomparto centrale; 115 x 46 ciascuno scomparto laterale
Venezia, Santa Maria Gloriosa dei FrariL’opera fu eseguita su commissione di Nicolò, Marco e Benedetto Pesaro al momento della morte della madre Franceschina, per essere ospitata in quella che sarebbe divenuta la cappella di famiglia: essa presenta dunque lo schieramento dei santi eponimi dei membri maschi della nobile casata (i tre figli e il padre Pietro). Agli intenti celebrativi si unisce, nello scomparto centrale, l’elogio francescano della privilegiata concezione di Maria senza peccato: la madre di Cristo è rappresentata in gloria di musica e di luce, mentre l’iscrizione del catino absidale le chiede l’intercessione per il cielo e Benedetto tiene aperto in tutta evidenza il passo dell’Ecclesiastico che fornisce al dogma le basi concettuali e l’autorità scritturale.
Sacra allegoria
1490 circaBellini, secondo uno schema già adottato in altri dipinti di devozione privata, organizza dentro l’ampia terrazza una messa in scena carica di spunti per la meditazione. I santi (Giobbe e Sebastiano all’interno del recinto, e – all’esterno - Paolo con la spada, Giuseppe in affettuosa adorazione del Bambino, Antonio abate a destra che scende dall’eremo), il Cristo bambino (seduto sul funebre cuscino), gli Innocenti che giocano intorno all’Albero della Vita, Maria sul trono quale Sedes Sapientiae affiancata da due Virtù, custodiscono significati che lo spettatore-committente, grazie al difficile percorso di studio e fede, riuscirà a interpretare. Il pastore assopito nella grotta e altre figure lontane vivacizzano lo splendido paesaggio lacustre, sul quale incombono impervi dirupi lontani. Degas, affascinato dal dipinto, lo copiò nel 1858-1859 durante un soggiorno a Firenze.
Archivio Giunti
Pala di San Zaccaria
1505
olio su tavola (ora trasportato su tela); 500 x 235
Venezia, San ZaccariaSi tratta dell’opera che per lungo tempo restò il modello imprescindibile della pala d’altare: Lorenzo Lotto, Tiziano, Sebastiano del Piombo e Pordenone furono obbligati a confrontarsi con essa, e lo fecero spesso in termini polemici. La pala è dominata dal principio di simmetria. Ai lati dell’asse centrale, che coincide con la perpendicolare della lampada e cade al centro del trono marmoreo, quasi tutto è specularmente riprodotto. Nell’emergenza concessa alle figure di Pietro e di Gerolamo - il funzionario efficiente (che non ha bisogno dello studio dei testi sacri per farsi interprete della parola di Dio) e l’intellettuale organico (che mette al servizio della Chiesa l’esperienza dello studio e della riflessione critica) -, Bellini rende un doppio elogio all’organizzazione ecclesiastica. La riduzione a quattro santi e a un solo angelo conferisce al dipinto un senso di maggiore spazialità rispetto alla Pala di san Giobbe, accresciuto pure dalla luce naturale che penetra fievolmente dai lati.
San Gerolamo nel deserto
1505Bellini rappresentò tante volte il santo nell’isolamento dell’eremo, in esclusiva compagnia dei testi sacri. Sullo sfondo di questo dipinto si staglia inequivocabile la mole di un’architettura moderna, forse riconoscibile come veneziana. Al protagonista il pittore riservò il ruolo di paladino della vita contemplativa, dell’esperienza intellettuale riservati a pochi eletti, da consumarsi in solitudine. Nel dipinto Bellini dà prova di eccellenti qualità, tanto nella resa dei dettagli quanto in quella della profondità spaziale, giocando sulla felice contrapposizione di paesaggio terrestre e marino.
IconografiaI santi Gerolamo, Cristoforo e Ludovico
1513Si tratta di una delle più alte prove del pittore nel genere della pala d’altare, realizzata a dieci anni dalla morte del committente, Giorgio Diletti, in totale libertà. Bellini pone sotto un’arcata di chiesa bizantina, aperta sulla spoglia rupe abitata da Gerolamo, i due santi Cristoforo e Ludovico. Ogni personaggio rappresenta un modello di vita all’interno della cristianità: la contemplazione ascetica degli eremiti (Gerolamo), l’apostolato degli umili presso i popoli (Cristoforo), l’impegno istituzionale dei prelati (Ludovico). L’artista sottolinea così l’equiparazione tra vita attiva e vita contemplativa all’interno del percorso di salvazione dell’umanità. Nella stessa chiesa il giovane Sebastiano del Piombo aveva dipinto due anni prima la pala d’altare dedicata al santo titolare.
Archivio Giunti
Festino degli dèi
1514
olio su tela ; 170 x 188
Washington, National Gallery of the ArtIl dipinto fu commissionato da Alfonso d’Este, duca di Ferrara, per ornare il suo camerino personale nel castello di famiglia. Si tratta di uno dei rarissimi quadri di soggetto profano del pittore, al quale la sorella del committente, Isabella, aveva chiesto ripetutamente e invano, un’opera mitologica. Nell’impaginazione dell’opera emergono evidenti impacci: Bellini non riuscì a narrare con la necessaria vivacità l’episodio del convito degli dèi, con l’insidia di Priapo a Loti addormentata. Il maestro, insoddisfatto, ci rimise più volte le mani ma, alla sua morte, Tiziano ne rielaborò il paesaggio di sinistra, tentando di accordarlo a quello dei suoi “baccanali” (dipinti tra il 1518 e il 1523 per lo stesso luogo). L’episodio raffigurato è tratto dai Fasti di Ovidio e raffigura Priapo, sulla destra, che insidia Loti addormentata, ma il raglio dell’asino di Sileno impedirà il misfatto. Intorno, gli dei sono in preda agli effetti del vino: Giove ha accanto a sé l’aquila, Nettuno accarezza con la mano destra Cibele e con la sinistra Cerere, Mercurio appare mollemente adagiato sulla botte, mentre nel fanciullo con i pampini in testa è da riconoscere Bacco bambino.
Archivio Giunti
Derisione di Noè
1514-1515
olio su tela; 103 x 157
Besançon, Musée des Beaux-ArtsL’originalità dell’impaginazione e della stesura pittorica ha portato moderni studiosi ad attribuire l’opera a Lorenzo Lotto e Tiziano. In realtà si tratta dell’ultimo capolavoro dell’anziano maestro, capace di rinnovare se stesso nell’adozione di registri sentimentali meno equilibrati e composti. Il soggetto (Noè ubriaco, deriso per la sua nudità oscena dal cattivo figlio Cam e pudicamente coperto dai figli buoni Sem e Jafet) rappresenta il manifesto estremo della crisi del principio di autorità e assume un chiaro significato politico: condanna l’oltraggio del suddito ignorante e cattivo nei confronti del governatore saggio. La forte carica naturalistica e la fusione dei toni, aliena alla più nota produzione del pittore, ha fatto ascrivere per lungo tempo l’opera all’orbita giorgionesca.
Iconografia